Come avevo concluso nel mio precedente articolo (“Il colore della pelle”), analizzando le nostre origini più antiche sorge, a mio avviso, la sensazione che si vengano ad intrecciare due fondamentali temi di base: uno che si potrebbe definire “unitario” e collegato al concetto di una continuità di fondo del fenomeno umano, ed un altro nel quale sembrerebbe invece emergere un aspetto più “dualistico” e connesso all’evento di una prima radicale e profonda dicotomizzazione, che anche Meister Eckhart ricorda, in termini generali, come la radice prima di ogni successiva divisione, necessario punto di avvìo per la molteplicità più recente.
Sono due temi che, a loro volta, credo vadano esplorati contemporaneamente su due piani ontologici ben distinti. Vi è, cioè, un livello superiore e “pre-materiale”, indagabile principalmente attraverso gli strumenti del Simbolo e del Mito; ma ovviamente esiste anche quello inferiore ed ormai terreno, sondabile con gli odierni strumenti di analisi scientifica e che, rispetto al primo, appare posteriore in termini logici e ritengo anche – come “riflesso” nella temporalità – dal punto di vista cronologico.
Nel superiore livello “pre-materiale” il tema “unitario” si presenta sotto le forme che sono già state rapidamente menzionate negli articoli precedenti (l’Androgino platonico, la singola casta Hamsa, ecc…), mentre quello “dualistico” è collegato, come vedremo più avanti, al fondamentale evento della polarizzazione dell’Essere in elemento Maschile e Femminile. Direi però che, a causa dell’anteriorità logica del livello “pre-materiale” rispetto a quello terreno, ne deriva un effetto che, in termini temporali, sembra manifestare uno “slittamento” tra i due piani – quasi un’immagine a “cascate successive” – per cui l’atto della divisione androginica appare sincrono alla materializzazione umana sul livello inferiore che inizialmente è unitaria (perché, per quanto possibile nel suo ambito, si presenta analoga alla precedente fase androginica ed indivisa), ma che però ben presto si dicotomizzerà anch’essa, per suddividersi ulteriormente di lì in avanti.
Sono concetti per i quali vi sarà modo, nei prossimi articoli, di fare qualche approfondimento, tornando sull’episodio della divisione androginica, della sua correlazione con la terrestrizzazione dell’Uomo e sull’analogia tra la sua prima forma materiale e lo stato ancora precedente, incorporeo e connesso all’elemento “Etere”; per il momento ci basti rimanere sul piano più basso per svolgere ancora qualche considerazione sulla genesi e sul divenire del fenomeno umano, sia sotto l’aspetto unitario che sotto quello dualistico (quest’ultimo, sviluppato soprattutto nelle analisi di Julius Evola).
Iniziando dalla prospettiva unitaria, abbiamo già visto negli articoli precedenti come questa, a mio avviso, si basi su elementi che sono costituiti dall’ampia diffusione di un certo tipo di caratteristiche razziali (“caucasoide arcaico”) e pigmentarie (“rossastre” e connesse al “rutilismo”), ma vi sono ulteriori punti che ritengo vadano in questa stessa direzione, rilevati da autori tradizionalisti e non.
Intanto, è stato notato come in nessun angolo del mondo esistano tradizioni che neghino esplicitamente un’origine monofiletica affermando, al contrario, il polifiletismo umano (cioè una provenienza da gruppi già nettamente separati fin dall’inizio). In termini ancora più generali, Renè Guenon rileva come la dualità non possa essere prodotta, in ultima analisi, che da un’unità di fondo e non sia concepibile alcuna irriducibilità assoluta neppure tra la prima di tutte le dicotomie, cioè quella che polarizza l’Essere Universale in “Essenza” e “Sostanza”, anche se a seguito di tale primo atto prende inizio quella molteplicità che sempre più tenderà a porre in risalto gli aspetti separativi ed “individuali” della manifestazione. A mio parere lo stesso concetto di base viene evidenziato anche da A.K. Coomaraswamy quando ricorda che due classi di entità così diverse e dalla funzionalità cosmologicamente opposta come Dei e Titani, sono in definitiva tutti figli di un solo Padre.
In termini più specificatamente antropologici, Titus Burckhardt sottolinea come i vari sottogruppi di Homo Sapiens non rappresentino che altrettanti “riflessi” dell’unica forma essenziale inscindibile che ne è l’archetipo comune, esattamente come i rami dipendono dall’unico tronco dell’albero; similmente, anche in Leopold Ziegler tutte le razze umane hanno la loro fonte primaria nell’Adamo androginico creato nel 1 capitolo del Genesi, ciò ricordando a mio avviso la già incontrata “Urmensch”, ipotizzata da Edgard Dacquè. Dal canto suo, Frithjof Schuon osserva come tutte le varietà dell’unica specie umana ne rappresentino ciascuna un particolare e legittimo aspetto, comportando ciascuna una diversa modalità di esistenza e contestando peraltro che la loro profonda ragion d’essere sia riconducibile al mero caso o alla sola azione dell’ambiente (che comunque non viene del tutto negata). Inoltre, per Schuon, il fatto che le varie razze umane non sembrino tra loro separate da paratìe stagne, non significa che non ne esistano di più “pure” accanto a gruppi etnici più eterogenei, volendo intendere per “pure” semplicemente quelle maggiormente vicine al rispettivo archetipo iniziale, costituito da un particolare elemento cosmico (aspetto sul quale torneremo negli articoli futuri).
Ma ovviamente la moltepli
cità dell’umano, e la sua riconducibilità ad un’origine monofiletica, è stata indagata anche da un punto di vista più prettamente scientifico; in termini biologici l’argomentazione principale risiede nella totale interfecondità reciproca di tutti i vari gruppi e, con ciò, l’evidenza che questi non rappresentano l’inizio incipiente di specie diverse. Passando al punto di vista glottologico, il già incontrato Alfredo Trombetti fu convinto sostenitore di una fonte comune di tutte le famiglie linguistiche del pianeta, mentre, più recentemente, Merritt Ruhlen ha rilevato come tutte le oltre 5000 lingue sparse nel mondo condividano più o meno il medesimo grado di complessità, cosa che risulterebbe incoerente con un’origine polifiletica delle stesse; in generale i ricercatori odierni osservano che tutte le lingue mondiali si basano sulla combinazione di una quantità di fonemi che può variare da un massimo di 40 ad un minimo di 14, numeri che, pur nella loro relativa distanza, appartengono ad uno stesso ordine di grandezza a testimonianza di un’origine quasi certamente non indipendente.
cità dell’umano, e la sua riconducibilità ad un’origine monofiletica, è stata indagata anche da un punto di vista più prettamente scientifico; in termini biologici l’argomentazione principale risiede nella totale interfecondità reciproca di tutti i vari gruppi e, con ciò, l’evidenza che questi non rappresentano l’inizio incipiente di specie diverse. Passando al punto di vista glottologico, il già incontrato Alfredo Trombetti fu convinto sostenitore di una fonte comune di tutte le famiglie linguistiche del pianeta, mentre, più recentemente, Merritt Ruhlen ha rilevato come tutte le oltre 5000 lingue sparse nel mondo condividano più o meno il medesimo grado di complessità, cosa che risulterebbe incoerente con un’origine polifiletica delle stesse; in generale i ricercatori odierni osservano che tutte le lingue mondiali si basano sulla combinazione di una quantità di fonemi che può variare da un massimo di 40 ad un minimo di 14, numeri che, pur nella loro relativa distanza, appartengono ad uno stesso ordine di grandezza a testimonianza di un’origine quasi certamente non indipendente.
Ma significativi tratti comuni a livello planetario sono certamente riscontrabili anche sul piano culturale.
Ad esempio sul versante artistico, Leroi-Gourhan segnala come l’arte rupestre dei Boscimani sudafricani risulti contrassegnata da aspetti grafici, tipici della pittura sciamanica, che rivela connessioni chiare con quelle dei Nativi americani e, sorprendentemente, anche con certe pitture paleolitiche dell’occidente europeo; oltretutto, sempre tra i Boscimani, sono emerse concordanze sorprendenti con alcune tribù peruviane e difficilmente spiegabili con la mera casualità, in quanto, nelle rispettive concezioni, le medesime stelle della volta celeste presiedono e proteggono le stesse specie animali. In generale risulta piuttosto chiaro come l’arte paleolitica – figurativa ed astratta – il cui apice viene toccato nel periodo maddaleniano europeo (posto all’incirca tra 17.000 e 10.000 anni fa), presenti delle forme e dei segni uguali, ad esempio, a quelle rinvenute in Tanzania, Brasile ed Australia, ma anche in contesti non più paleolitici, come in Egitto, Cina o Mesopotamia (denotando quindi una indubbia continuità culturale con i periodi anteriori); un’area di dispersione su scala vastissima che non può certo lasciare indifferenti e che colpì anche l’etnologo Leo Frobenius, soprattutto in merito a delle precise corrispondenze paleolitiche euro-africane. Oltretutto, si tratta di un imponente corpus di segni e grafismi le cui ripetitività e le diverse associazioni alludono a delle complesse concettualità sottostanti, smentendo quindi le interpretazioni basate su paragoni impropriamente tentati con le espressioni artistiche infantili; un approccio derivante da uno scoperto pregiudizio evoluzionistico-progressivo nei confronti delle popolazioni “selvagge”, che in tale ottica sarebbero immancabilmente dominate da un “prelogismo” tipico delle menti non ancora adulte.
Sotto l’aspetto più mitico-sacrale, già ricordavo (nell’articolo “Il Polo, l’incorporeità, l’Androgine”) le illuminanti analisi di Mircea Eliade su quella “nostalgia delle origini” che è largamente diffusa tra i più svariati popoli della terra, senza distinzione di razza, posizione geografica, cultura e religione, e che rimanda ad un’ormai perduto momento paradisiaco iniziale, comune a tutto l’ecumene umano. Un’analoga diffusione su scala planetaria (America, Polinesia, Asia meridionale, Mediterraneo, Africa) viene rilevata anche per l’idea che attribuisce alla Luna la funzione di simbolo centrale del divenire, non senza una certa relazione con l’avvento della mortalità umana in illo tempore; taluni aspetti molto specifici del mitologema lunare accomunerebbero, secondo Adolf Jensen, arcaiche concezioni elleniche a precisi elementi cultuali attestati presso la popolazione Wemali dell’isola di Ceram in Indonesia, il tutto originante, a suo avviso, da un’antichissimo corpus un tempo largamente diffuso sul pianeta, non incompatibile con le pur forti differenze osservabili dal punto di vista della cultura materiale. Ma aspetti comuni di elevatissima profondità temporale vengono evidenziati ancora da Eliade nelle numerose rassomiglianze denotate tra i riti sciamanici siberiani ed australiani, ma anche tra quelli delle popolazioni amerinde e scandinave (in particolare tra i Lapponi) che, in quanto rintracciabili fino nell’America del Sud, ben difficilmente potrebbero essere dovuti ad un’influenza eurasiatica recente piuttosto che ad una, molto più verosimile, comune fonte ancestrale. Una fonte che dovrebbe coincidere con la zona dove Eliade ritiene di individuare le tracce più antiche delle strutture sciamaniche, ovvero nell’estremità orientale della Siberia e cioè praticamente nel cuore dell’antica Beringia (menzionata soprattutto nel precedente articolo “Il Paradiso Iperboreo”); credo quindi sia di notevole interesse il fatto che lo stesso Guenon considerò la presenza e l’estrema diffusione dei suoi elementi fondamentali – il simbolismo iperboreo del Cigno, del Polo, l’ascesa lungo l’Albero come analogia della salita lungo l’Asse della manifestazione – talmente significativi da collegare lo sciamanismo, almeno agli inizi, direttamente alla fonte della Tradizione Primordiale. Anche Frithjof Schuon, che ha indagato in maniera ancora più specifica il mondo mitico dei Nativi americani, ha chiaramente indicato nello “sciamanismo iperboreo” una derivazione tradizionale diretta, sicuramente originante dalla più alta preistoria ed ancora conservante qualcosa di primigenio, di puro; filiazioni tradizionali più tarde sarebbero invece quelle messicane e peruviane, probabilmente legate più strettamente al mondo atlantico. Il fenomeno sciamanico costituisce quindi una delle più antiche e diffuse stratificazioni cultuali umane, se è vero che per Eliade la transedello sciamano cerca di ricreare direttamente la condizione esistenziale dell’Uomo Primordiale, quando egli non era ancora separato dai Numi ma anzi comunicava con essi scalando una montagna, salendo su un albero o su una liana per recarsi nelle altezze celesti; l’estasi (che spesso consta di un’esperienza morte-resurrezione come nel cristianesimo) è quindi legata al ritrovamento del Paradiso Terrestre, che non è quindi appannaggio della sola tradizione giudeo-cristiana, ma rappresenta un dato umano certamente universale. Eliade, oltretutto, rileva come certe esperienze fotiche dello sciamano siano praticamente identiche alle visioni descritte dai grandi mistici storici (indiani, cristiani, ecc…), mentre per Coomaraswamy, Filippani Ronconi ed anche per Renè Guenon altri elementi sono certamente avvicinabili ad alcuni riti vedici (come l’arrampicamento sull’albero); sempre nel vasto ambito indiano è stata avanzata l’ipotesi che lo stesso shivaismo rappresenti una rielaborazione “dotta” e riveduta dello sciamanismo ancestrale. In termini più generali è stato rilevato come fenomeni di tipo estatico e di matrice indiscutibilmente sciamanica, ad esempio connessi all’uso di droghe sacre, siano stati esperiti anche in ambito indoeuropeo, senza la necessità di ricondurli ad influenze di popolazioni coeve esterne, provenendo invece da un’origine senz’altro interna ma filogeneticamente anteriore; ad esempio nello zoroastrismo iranico è
probabile siano state assunte e reinterpretate concezioni sciamaniche residuali e valenze magico-totemiche, come forse per il caso della trasformazione in uccello, concezioni che sembrano ben radicate anche nel vasto corpus ellenico. Nuccio D’Anna riconduce infatti ad un tipo di spiritualità sciamanica – ma non per questo necessariamente estranea al mondo indoeuropeo – il numeroso raggruppamento di esseri divini preolimpici dalle caratteristiche “acquatiche”, ma anche le figure di Hefestos e dello stesso Apollo, e con esso tutta una serie di personaggi semi-mitici ritenuti i suoi più devoti adoratori. Ad esempio Eliade ricorda l’iperboreo Abari che era dotato di poteri oracolari e magici; leggende analoghe parlano di bilocazioni, discese agli inferi, estasi di altri personaggi greci, tutti collegamenti piuttosto chiari con il fenomeno siberiano e in generale tra la vocazione apollinea e quella sciamanica. Una vocazione che sembra aver interessato anche il corpus norreno, se è vero che Massimo Centini vi rileva sorprendenti connessioni con alcune funzioni dello stesso Odino.
probabile siano state assunte e reinterpretate concezioni sciamaniche residuali e valenze magico-totemiche, come forse per il caso della trasformazione in uccello, concezioni che sembrano ben radicate anche nel vasto corpus ellenico. Nuccio D’Anna riconduce infatti ad un tipo di spiritualità sciamanica – ma non per questo necessariamente estranea al mondo indoeuropeo – il numeroso raggruppamento di esseri divini preolimpici dalle caratteristiche “acquatiche”, ma anche le figure di Hefestos e dello stesso Apollo, e con esso tutta una serie di personaggi semi-mitici ritenuti i suoi più devoti adoratori. Ad esempio Eliade ricorda l’iperboreo Abari che era dotato di poteri oracolari e magici; leggende analoghe parlano di bilocazioni, discese agli inferi, estasi di altri personaggi greci, tutti collegamenti piuttosto chiari con il fenomeno siberiano e in generale tra la vocazione apollinea e quella sciamanica. Una vocazione che sembra aver interessato anche il corpus norreno, se è vero che Massimo Centini vi rileva sorprendenti connessioni con alcune funzioni dello stesso Odino.
In ogni caso, per Schuon lo sciamanismo può anche contenere dei non trascurabili tratti di “ambiguità”, una possibile deviazione che,anche secondo Guenon, dovette essersi verificata nel momento in cui si sarebbe stretto oltre misura il particolare connubio tra sciamano ed animale, individuandovi una potenziale forma di possessione psichica; o comunque laddove la simbologia animale iniziò a denotare delle modificazioni sostanziali rispetto a quelle originarie o ad acquisire un’importanza preponderante in rapporto al contesto generale. E’ il punto in cui si registra uno scivolamento verso forme “totemiche” di culto: simboli iperborei come ad esempio il Cigno che, tra gli ugrofinni, regredisce e diventa Papero come segno della caduta del tema olimpico originario e di una solarità che ora non è più pura luce, ma soggetta alla mutevolezza, ed accostata a “vita” e fecondità. Analoga linea di caduta totemica interessa spesso anche un altro animale legato fortemente all’idea della luce e della primordialità boreale, e cioè l’Orso, in rapporto al quale diversi popoli sottolineano un legame quasi di discendenza di sangue, come gli Ainu ed i Lapponi (che lo chiamano “uomo”, con significativa analogia rispetto agli usi di certe popolazioni africane verso il gorilla o, come segnalato anche da Frobenius, verso il felino); all’Orso viene riservato un culto che Eliade (assieme a Frazer ed altri autori) stima come tra i più antichi e diffusi in assoluto, essendo attestato nella “solita” Siberia (Ghiliaki, Uralici, Paleoasiatici), tra gli Ainu, i Baschi, i Marocchini, diversi Amerindi e probabilmente altri popoli ancora (che, oltretutto, spesso lo identificano tout court con la stella polare), e ciò probabilmente non senza relazione con l’ipotesi formulata da Emanuel Anati di una forma religiosa unitaria su scala mondiale risalente forse a 40.000 anni fa. La direzione “totemizzante”, che peraltro Evola segnala, in una certa misura, essere stata conosciuta anche nell’ambito della sacralità ario-romana con le figure dei lares e dei penati, sembra quindi una particolare possibilità regressiva che pare aver goduto anch’essa di una notevole diffusione su vasta scala, se è vero che è stato osservato come nel mondo esistano due principali filoni mitologici che narrano l’origine dell’umanità: uno che ricorre ad un Totem, animale o vegetale, ed un altro basato sulla “plasmazione” di una materia prima preesistente. Si potrebbe dire che nella Bibbia vi è la compresenza sia della versione totemica che di quella del “plasmatore-vasaio”, dal momento che il Genesi presenta, come noto, due distinte versioni della creazione.
Ma pur attraverso una forma deviata, involuta o indiretta, tutte queste popolazioni mostrano comunque un indubbio collegamento con la Tradizione Primordiale la cui simbologia polare (ad esempio con la frequente presenza dello svastica) sembra piuttosto eloquente. Peraltro, il collegamento alla Tradizione Primordiale delle popolazioni prive di una storia e giacenti al cosiddetto “stato etnologico” viene reso palese anche da un’attenta analisi delle loro concezioni cosmologiche, operazione che risulta quasi sempre molto problematica per l’etnologia accademica, priva di veri riferimenti spirituali. Accade così, come rilevato da Guenon, che ad esempio certe pratiche “operative” dei Nativi americani vengano frettolosamente catalogate come di “bassa magia”, mentre invece sfugge che il perfetto padroneggiamento di quell’ambito energetico definito “orenda” (corrispondente al “prana” indù ed al “ki” estremo-orientale) – intermedio tra spirituale e materiale – sia il risultato di conoscenze elevatissime ed ormai smarrite in occidente; in questo modo, ogni risultato fenomenologicamente ottenuto è la conseguenza accessoria ed “in sovrappiù” di un’azione effettuata dall’alto, su di un piano autenticamente spirituale, nell’unico modo possibile per evitare i pericoli del multiforme, labirintico ed ambivalente universo psichico. Una Tradizione Primordiale che mostra la sua influenza anche tra varie popolazioni dell’Africa occidentale, in particolare i Dogon del Mali, tra i quali sarebbero presenti insospettabili analogie addirittura con l’ideazione platonica sulla natura della realtà o con la cosmologia indù sul numero dei mondi – 14, precisamente come i Manvantara in un Kalpa – impilati lungo un’asse verticale, raffigurazione molto simile alla teoria degli stati molteplici dell’essere di Guenon; o con la perfetta consapevolezza di appartenere ad un mondo che deve essere rettificato, in quanto caduto da una precedente situazione ben più elevata di quella attuale.
Sulla base di tutta questa mole di elementi, appaiono quindi giustificate le considerazioni di Seyyed Hossein Nasr ed Ananda Kentish Coomaraswamy, secondo i quali, in termini generali, la stessa “Philosophia Perennis” – ovvero la Tradizione Primordiale – è anche autenticamente “universalis”, ovvero eredità comune a tutto il genere umano senza eccezioni: orientando quindi in modo deciso la corrente culturale del Tradizionalismo integrale verso una visuale fondamentalmente monofiletica delle origini umane, sia linguistiche che razziali.
Una corrente nell’ambito della quale, però, il pensiero di Julius Evola evidenzia, sul tema specifico, una certa autonomia.
Non va infatti dimenticato che lo stesso Evola scrisse nella sua autobiografia come la sua interpretazione della storia venne elaborata attraverso una sintesi delle vedute di Renè Guenon, di Herman Wirth e di Johann Jakob Bachofen. Quest’ultimo autore, com’è noto, espresse nella sua corposa opera, soprattutto “Das Mutterrecht”, il concetto che la chiave fondamentale della dinamica storica di tutte le civiltà, risiedesse principalmente nell’alternanza, e spesso opposizione, di fasi matriarcali e patriarcali di dominio.
Da vari studiosi in ambito tradizionale è stato pe
rò rilevato che l’influenza, senz’altro notevole, che le categorie bachofeniane esercitarono sulle elaborazioni di Julius Evola, rappresentano un elemento abbastanza isolato nell’ambito degli autori che si accostarono allo studio delle dottrine tradizionali, qualcuno anzi sottolineando come tali categorie, da questo punto di vista, non possano essere sorrette da una vera autorità dottrinaria. Ma è proprio da tali categorie che Evola ricevette un’impostazione che diversi ricercatori hanno definito “dualistica”, e che Di Vona accosta alle concezioni di Platone e Parmenide in merito alla “dottrina delle due nature”; una visuale che, accogliendo in pratica il concetto di una chiara scissione tra mondo terreno e dominio celeste, sembra quasi prevalere anche sulla tradizionale tripartizione dell’uomo (Spirito, Anima, Corpo). Tale impostazione trasmise al pensatore romano la tendenza in ogni ambito, e quindi anche in quello storico che qui più ci interessa, a sottolineare maggiormente gli aspetti separativi piuttosto che quelli unitari, ed a contrapporre elementi che invece, con un diverso approccio interpretativo, avrebbero potuto essere letti come certamente diversificati ma comunque riconducibili ad un’unica realtà di fondo. Si arriva così alla situazione, per certi versi paradossale, che Evola, pur giungendo ad ammettere teoricamente una “Tradizione Primordiale”, ne postuli, nel 1930 su “La Torre” due “grandi ed opposte formulazioni”, una cioè legata al Nord e poi all’Occidente, l’altra legata al Sud e poi all’Oriente. Anche nel 1931 Di Vona segnala un intervento nel quale il Nostro metteva in dubbio l’unità trascendente della Tradizione e nel quale si interrogava se fosse concepibile una “differenziazione originaria” in seno a quella spiritualità che “farebbe da sfondo” ad ogni civiltà tradizionale. A questa differenziazione Evola – ricalcando il Bachofen – continua sempre a far corrispondere la dicotomia tra tipo sacerdotale (tradizioni meridionali) e tipo eroico (tradizioni nordico-occidentali), quindi con il nostro campo attestato sui valori dell’azione, pur in forme materialistiche certamente da condannare; tale condanna, però, secondo Evola non deve far cadere – all’opposto – in forme di spiritualità anti-occidentale, di tipo contemplativo-ascetico, tra le quali pone anche quella dei Veda (che “non è la nostra tradizione”) né, come sottolineerà in Rivolta, in forme estremo-orientali di tipo sciamanico, a suo giudizio di inferiore levatura spirituale, quindi in disaccordo con quanto più sopra esposto.
rò rilevato che l’influenza, senz’altro notevole, che le categorie bachofeniane esercitarono sulle elaborazioni di Julius Evola, rappresentano un elemento abbastanza isolato nell’ambito degli autori che si accostarono allo studio delle dottrine tradizionali, qualcuno anzi sottolineando come tali categorie, da questo punto di vista, non possano essere sorrette da una vera autorità dottrinaria. Ma è proprio da tali categorie che Evola ricevette un’impostazione che diversi ricercatori hanno definito “dualistica”, e che Di Vona accosta alle concezioni di Platone e Parmenide in merito alla “dottrina delle due nature”; una visuale che, accogliendo in pratica il concetto di una chiara scissione tra mondo terreno e dominio celeste, sembra quasi prevalere anche sulla tradizionale tripartizione dell’uomo (Spirito, Anima, Corpo). Tale impostazione trasmise al pensatore romano la tendenza in ogni ambito, e quindi anche in quello storico che qui più ci interessa, a sottolineare maggiormente gli aspetti separativi piuttosto che quelli unitari, ed a contrapporre elementi che invece, con un diverso approccio interpretativo, avrebbero potuto essere letti come certamente diversificati ma comunque riconducibili ad un’unica realtà di fondo. Si arriva così alla situazione, per certi versi paradossale, che Evola, pur giungendo ad ammettere teoricamente una “Tradizione Primordiale”, ne postuli, nel 1930 su “La Torre” due “grandi ed opposte formulazioni”, una cioè legata al Nord e poi all’Occidente, l’altra legata al Sud e poi all’Oriente. Anche nel 1931 Di Vona segnala un intervento nel quale il Nostro metteva in dubbio l’unità trascendente della Tradizione e nel quale si interrogava se fosse concepibile una “differenziazione originaria” in seno a quella spiritualità che “farebbe da sfondo” ad ogni civiltà tradizionale. A questa differenziazione Evola – ricalcando il Bachofen – continua sempre a far corrispondere la dicotomia tra tipo sacerdotale (tradizioni meridionali) e tipo eroico (tradizioni nordico-occidentali), quindi con il nostro campo attestato sui valori dell’azione, pur in forme materialistiche certamente da condannare; tale condanna, però, secondo Evola non deve far cadere – all’opposto – in forme di spiritualità anti-occidentale, di tipo contemplativo-ascetico, tra le quali pone anche quella dei Veda (che “non è la nostra tradizione”) né, come sottolineerà in Rivolta, in forme estremo-orientali di tipo sciamanico, a suo giudizio di inferiore levatura spirituale, quindi in disaccordo con quanto più sopra esposto.
Se è vero che l’anno successivo in Evola si registra un certo cambiamento di posizione, arrivando a concepire l’Età dell’Oro come un momento in cui regalità e sacerdotalità coincidevano, tuttavia è innegabile che il pensatore romano non rinuncerà mai a mantenere una netta differenza tra una “Luce del Nord”, olimpica e solare, ed una contrapposta, disgregatrice, “Luce del Sud”, quali riflessi di civiltà che sembrerebbero inassimilabili l’una all’altra e ben separate fin dai tempi delle primissime origini. A mio parere, va tuttavia evidenziato come per Evola il contesto che avrebbe accompagnato la “Luce del Nord” sarebbe cosmologicamente legato alle avverse condizioni climatiche sopraggiunte nell’habitat delle primordiali razze boreali, portando queste a dover sviluppare particolari attitudini di dinamismo culturale e di “virilità” spirituale: una fase non certo priva di fondamento, ma probabilmente relativa ad un contesto non più aurorale della storia umana, in quanto contrastante con le condizioni edeniche da “Eterna Primavera” che miticamente avrebbero segnato l’autentica, primordiale, Età Paradisiaca.
Questa tendenza dualistica, continuamente presente più o meno sottotraccia nel pensiero evoliano, segna una netta differenziazione concettuale rispetto a Guenon. Il francese non concordò mai con una tale contrapposizione spirituale tra Settentrione e Meridione, della cui l’inconsistenza dottrinale ebbe modo di scrivere, reputando anche improprio, nella sua recensione di “Rivolta”, l’utilizzo del concetto di Sud nell’accostamento con l’Atlantide (in verità per Evola è da un Sud ancora più profondo – un’ipotetica Lemuria – che avrebbero tratto la loro prima origine i temi della Madre e della Terra, che poi, sotto l’influenza della “Luce del Sud”, si sarebbero solo infiltrati in ambito atlantico; anche questa, a mio parere, un’ipotesi largamente condivisibile); comunque una contrapposizione che il francese ritenne erronea e di fatto equivalente alla posizione dei negatori dell’esistenza originaria di una Tradizione Primordiale unitaria, e che oltretutto sottovaluta la possibilità che la decadenza di una razza inizi sempre e comunque da una caduta spirituale interna, non da un’influenza esogena.
Eppure, nonostante il suo tendenziale dualismo e l’impostazione apparentemente non monofiletica delle origini umane, a ben vedere anche in Evola si può trovare qualche sporadico aggancio ad una visuale unitaria che a mio avviso non è incompatibile, ma semplicemente dev’essere collocata anteriormente alla prima radicale dicotomia umana (sulla quale torneremo più avanti).
In effetti, pare intanto non privo di significato il fatto che, in un rapido accenno, il pensatore romano separi nettamente la razza di Neandertal, le cui caratteristiche non sarebbero ravvisabili “nemmeno tra i selvaggi australiani più primitivi”, dal tipo Homo Sapiens, ovvero “il ceppo dell’umanità attuale”, quindi ammettendo un “perimetro” umano nell’ambito del quale tutte le attuali razze sarebbero relativamente più vicine tra di loro rispetto a quanto non lo siano nei confronti di gruppi “non Sapiens”. Nella stessa direzione, già in un articolo precedente (“L’Uomo originario e l’inizio dell’età paradisiaca”) ricordavo quella razza Hamsa che anche per Evola fu “anteriore ad ogni successiva differenziazione”, come pure il tema dei due gemelli Romolo e Remo che, pur antitetici (il primo votato alle divinità maschili, celesti e solari, il secondo a quelle femminili, ctonie e lunari), possono rappresentare una chiave interpretativa delle stesse “origini umane” in quanto nati comunque dalla stessaLupa. E proprio dal simbolico percorso involutivo di questo animale – che da luminoso divenne infero – a ben vedere possono giungerci altri riferimenti di carattere “unitario” se consideriamo che Evola significativamente evidenziò come lo stesso principio luminoso dell’età aurea potè cadere in forme oscure e selvagge, paradigma di civiltà telluriche che, sotto il segno delle Madri o dei Titani (ma a mio avviso da intendere soprattutto come “Giganti”, vedremo più avanti il senso di questa distinzione) rappresentano comunque il risultato regressivo di un ciclo che “non più” conosce l’ideale iperboreo di partenza. Ad una similare impostazione si potrebbe, ad esempio, accostare anche il tema delle origini dei Fomori, popolo mitico “di substrato” ricordato nel ciclo irlandese (e non a caso da Evola avvicinato ai Giganti), i quali, rappresentando una materializzazione/degradazione delle forze originarie, vengono in fondo ricondotti alla stessa origine boreale delle razze divine quali i “Tuatha De Danann”. Stessa origine che, oltre che per quelle indoeuropee, altri autori (come ad esempio Felice Vinci e Silvano Lorenzoni) hanno esplicitamente ipotizzato – magari uscite in tempi assai diversi dalle zone artiche – anche per molte altre popolazioni: ad esempio Mediterranei, Egizi, Caucasici, Semiti, Sumeri, Indonesiani, Pigmoidi vari, Ainu, Amerindi settentrionali e meridionali, e chissà quante altre. Nel bacino mediterraneo si è ipotizzato che Pelasgi, Arcadi e Aborigeni ebbero anch’essi collegamenti più o meno diretti con il mondo boreale; infatti una, pur discussa, etimologia di Licofrone rende il termine “aborigeno” – inteso come elemento di primo substrato italico – quale derivazione da “a-boreigonoi” cioè “uomini boreali”, “uomini del Nord”, mentre invece per Evola questi rappresenterebbero una stratificazione “tellurica” ed assolutamente inassimilabile a quella successiva ed ariana.
Un altro concetto spesso utilizzato da Julius Evola e coerente con la sua impostazione tendenzialmente dualistica è quello delle cosiddette “razze di natura” (“naturvolker”) che vengono contrapposte a quelle portatrici di una cultura (“kulturvolker”), di una tradizione. Per Evola, le “razze di natura” sono fondamentalmente quelle nelle quali le forze dell’istinto e dell’eredità costituiscono le principali energie che danno forma alla vita, e le cui espressioni cultuali più rappresentative sarebbero al massimo costituite dal summenzionato totemismo. A parte il fatto che la definizione stessa di “naturvolker”, probabilmente risalente ad una fase ancora embrionale della ricerca etnologica, può essere fuorviante in quanto sembrerebbe presupporre l’esistenza di gruppi umani giacenti in una condizione di semi-animalità e quasi del tutto privi di una qualsivoglia sovrastruttura culturale (caso praticamente mai riscontrato), va anche detto che tale etichetta è stata molto spesso attribuita dagli antropologi occidentali a popoli che invece, come visto sopra, presentano ricchissimi aspetti sacrali-culturali a loro completamente sfuggiti o quanto meno sottovalutati. Peraltro, è anche la questione dell’effettiva origine di queste fantomatiche “razze di natura” che pare piuttosto ambigua: in effetti Guenon, a ragione, contesta il fatto che esistano popoli “di natura” privi fin dall’inizio di una tradizione, in quanto tutte le razze all’origine ne hanno una, anche se è evidente che in seguito possono degenerare e perderla più o meno completamente. Il francese ricorda infatti come le molteplici usanze osservate presso i “selvaggi” attuali non siano assolutamente spiegabili se questi fossero vissuti sempre alle stesse modalità attuali, ma solamente presupponendo che essi rappresentino i resti ormai degenerescenti di ben altre civiltà; oggi certe concezioni sopravvivono solo al livello di “superstizione”, vuote ripetizioni e consuetudini senza che però siano pienamente comprese nel loro significato più alto, metafisico.
E’ quindi fuori discussione in questa sede il significato di tali popolazioni viventi, involute e regredite, assolutamente non giacenti ancora allo stato cosiddetto “primitivo” secondo l’errata prospettiva evoluzionistico-progressiva: non si tratta di “fossili viventi” che si sarebbero fermati ad un livello “arretrato” rispetto al nostro (di cui l’analogia sopra menzionata con il “prelogismo” tipico delle menti infantili), se non solo per quanto riguarda l’aspetto della cultura tecnico-materiale, che però non può certo esaurire – riduttivamente, come ammette anche Evola in “Indirizzi per un’educazione razziale” – tutto lo spettro espressivo del fenomeno umano. L’osservazione odierna di queste popolazioni, non può quindi dirci granchè in merito all’umanità più arcaica, né sotto l’interpretazione deformante dell’orda primordiale, “non ancora” completamente affrancatasi dall’animalità (basata magari sullo studio di qualche isolata tribù che pratica l’antropofagia e su un’indebita estensione oltre misura di questi aspetti, in verità molto specifici) né sotto la visuale, solo apparentemente opposta ma inficiata da similari lenti deformanti, legata al mito del “buon selvaggio”. Un mito che andrebbe senz’altro rivisto dal momento che vi sono esempi, anche se sporadici ed eccezionali se confrontati alla media delle civiltà arcaiche, di comportamenti distruttivi anche tra popolazioni a “livello etnologico” ben prima che queste venissero a contatto con la destabilizzante civiltà europea, tecnologica e “faustiana”: ad esempio i nativi dell’Isola di Pasqua arrivarono quasi a distruggere il loro habitat naturale già in tempi antichi, e così anche i colonizzatori neolitici di Malta. Furono tuttavia casi di istintualità scatenata e di culture nettamente deviate rispetto alla norma.
Ma, accanto all’idea di una netta, irriducibile, dicotomia “kulturvolker/naturvolker” (che per certi versi può richiamare quella “Luce del Nord / Luce del Sud”) Evola, forse contraddittoriamente, in alcuni passi sembra invece approssimarsi alla posizione più “unitarista” di Guenon, quando ad esempio rileva che i cosiddetti “selvaggi” rappresenterebbero l’ultimo grado di regressione di “alcuni ceppi dispersi” di ben altra levatura spirituale, e comunque mostrerebbero un grado di continuità assai più alto di quanto si possa credere tra l’Umanità “vera” delle origini e quella delle grandi civiltà tradizionali. Altrove nota che “il corpo sapienziale tradizionale si è disperso e frammentato in tutte le civiltà, orientali e occidentali, viventi o estinte, financo in forme involutive e notturne, come ne è il caso per credenze spesso conservatesi fra le stesse popolazioni selvagge” (corsivo mio), e dove sappiamo che in un altro passaggio Evola definisce “notturne”, oltre che “telluriche”, proprio le razze nere, australi ed africane; razze che altrove (articolo “Preistoria libica” del 22/2/1936 sul “Corriere Padano”) vengono non considerate “primitive”, nel senso di originario, ma come residui di estrema degenerazione di rami sperduti di antiche civiltà. Il che, a ben vedere, può ben accompagnarsi ai rilievi di alcuni autori sul fatto che la tradizione africana abbia senza dubbio risentito del forte disorientamento culturale conseguente al dramma della schiavizzazione che dovette subire a partire dal XVI secolo, o le note di Leo Frobenius che ricorda le osservazioni dei primi navigatori europei del tardo medioevo sulle civiltà di livello non certo ancora “selvaggio” trovate nell’Africa nera; o anche, sempre in Frobenius, la decisa negazione che quella africana sia una vita religiosa basata sui feticci e come il cosiddetto basso “feticismo” costituisca un oscuramento di concezioni assai più pure ed elevate. Per Giovanni Monastra è dunque molto probabile che le fonti documentative di Evola fossero piuttosto incomplete in merito alle razze africane, cosa che gli fece ignorare i fondamentali studi etnologici di Marcel Griaule nei quali venivano portati elementi importanti a sostegno di una notevole complessità e coerenza delle concezioni spirituali di
almeno alcune popolazioni subsahariane.
almeno alcune popolazioni subsahariane.
In ogni caso, un altro punto fondamentale è che la perdita della propria tradizione è un evento, come ricorda significativamente Guenon, che non riguarda solo i cosiddetti “selvaggi”, ma nondimeno anche gli occidentali moderni.
E quindi, dov’è che risiede la vera, profonda, differenza tra i “civilizzati” ed i “selvaggi”, se in fondo deriviamo tutti da un’unica “Caduta” spirituale ?
E’ un quesito al quale, com’è stato giustamente notato, Evola non risponde con chiarezza. Ma, mi chiedo, è una differenza che può essere tracciata così nettamente ? A tal proposito Guenon, ad esempio, segnala come in rapporto all’aspetto specifico della rappresentazione della sopravvivenza postuma, certe concezioni ritrovabili tra alcuni degli attuali “primitivi”, non si discostino poi molto da altre analoghe credenze ritrovabili (in verità sempre meno, sull’onda della globalizzazione galoppante…) tra i contadini di molti paesi della civile Europa. Tuttavia, se Joseph De Maistre riteneva che l’uomo era caduto ma i “selvaggi” erano caduti ancora più in basso – quindi ponendo una questione di differenza “quantitativa” di involuzione – a mio parere è più convincente l’idea che piuttosto si siano estrinsecate modalità qualitativamente diverse di regressione tra l’umanità moderna e le popolazioni selvagge, molteplici direzioni in discesa che, per Martin Lings, nel corso dei millenni sono diventate tra loro ampiamente divergenti, incanalando i “popoli di natura” lungo percorsi profondamente diversi da quelli consolidatisi in occidente. Alcuni fondamentali elementi relativi alla cultura materiale possono anche essere stati smarriti per strada, come ad esempio sembra attestato per i Tasmaniani, che pare in origine disponessero di tecnologie relativamente avanzate le quali vennero perse circa 10.000 anni fa, quando l’innalzamento del livello marino li separò dagli australiani; oppure possono essere state conoscenze deliberatamente abbandonate, come forse è avvenuto per i gruppi umani che oggi non conoscono il metodo di accensione del fuoco (per esempio i Pigmoidi asiatici ed alcuni gruppi africani). In un modo come nell’altro, per costrizione o per scelta, le popolazioni “non civilizzate” hanno così perpetuato la loro cultura soprattutto su piani diversi da quello dell’elaborazione materiale, creando delle “società del non sviluppo” che, in definitiva, sono rimaste preservate da quella particolare e specifica forma di decadenza che invece ha raggiunto il suo apice nella civiltà moderna ed occidentale, e la cui velocità di caduta si può dire abbia incrementato il suo ritmo dalla fine del medioevo in poi. Una “ipertrofia” tecnologica che non ha impattato nemmeno su civiltà “maggiori” come ad esempio quelle di Arabi, Cinesi, Indiani che possedevano sicuramente le conoscenze di base per raggiungere uno sviluppo analogo a quello europeo, ma evidentemente hanno scelto di non spingersi oltre, in quanto non erano interessate ad ampliare in modo abnorme la sfera tecnologica a discapito di altre.
Trovo opportuno chiudere questo questo articolo con due affermazioni che forse potrebbero trovare reciprocamente concordi René Guenon e Julius Evola: il primo disse che non si dovrebbe mai parlare di superiorità o inferiorità in senso assoluto tra varie civiltà, mentre il secondo affermò che il diritto al dominio deve avere come necessaria premessa una superiorità spirituale, non materiale.
Con il prossimo articolo, come detto in apertura, cercheremo di riprendere le analisi sugli aspetti più prettamente mitici della genesi umana, partendo dall’inizio del Secondo Grande Anno del Manvantara.
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