Il compito del profeta non è mai stato facile, c’è sempre la possibilità di essere smentito, talvolta in maniera clamorosa, dagli eventi successivi. Io non pretendo certo di conoscere il futuro per rivelazione divina, e tutto quello che vi sto dicendo potrebbe domani non rivelarsi valido, ma almeno so di essermi messo al riparo da una distorsione concettuale che coinvolge la maggior parte dei nostri contemporanei, almeno quelli appartenenti alla cultura cosiddetta occidentale, tutte le volte che si cerca di ipotizzare che cosa possa avere in serbo per noi l’avvenire.
Ve ne ho accennato nella prima parte di questo scritto, ciò che io non condivido, e suppongo neppure voi condividiate, è “l’ottimismo immotivato e tetragono a ogni smentita di chi pensa che alla fine la scienza, la tecnica, il progresso risolveranno tutti i problemi, e in attesa di questa parusia messianica si avvicina sempre di più e sempre più incoscientemente all’orlo dell’abisso”.
Tra i fattori che certamente condizioneranno il nostro futuro, la volta scorsa abbiamo parlato dell’innovazione tecnologica che, lungi dall’essere la panacea per risolvere tutti mali, accresce in maniera esponenziale la differenza fra chi possiede mezzi, strumenti, “know how” e tutti gli altri, e forse ci prepara un futuro totalmente robotizzato e disumanizzato. Non si tratta tuttavia dell’unico genere di fattore fra quanti incideranno o potrebbero incidere sul nostro futuro.
Una cosa che purtroppo possiamo dare praticamente per sicura, è che nel futuro prevedibile a breve, a medio, a lungo termine, non possiamo aspettarci alcun miglioramento ma soltanto un peggioramento delle condizioni di vita, della ricchezza, del benessere della popolazione. Il degrado dell’istruzione, della sanità, delle forme di protezione sociale destinate soprattutto ai ceti subalterni, diventeranno a breve sempre più visibili.
Questo riguarda in particolar modo l’Italia. Più di una volta ci siamo chiesti, su queste pagine e altrove, che razza di futuro può avere un Paese che fa fuggire le proprie eccellenze e importa con generosità smisurata vu cumprà e tutto il materiale umano di scarto che ci arriva dal Terzo Mondo. A questo riguardo, bisognerebbe fare un discorso estremamente chiaro. La ricchezza di una nazione NON E’ DATA DALLA RICCHEZZA DI MATERIE PRIME O ALTRO. Tutti quanti noi abbiamo sotto gli occhi l’esempio del Brasile, un Paese ricchissimo di materie prime, a cominciare dal petrolio, dove nonostante ciò esiste una miseria spaventosa, e lo stesso discorso lo potremmo fare per la stragrande maggioranza dei Paesi africani o per quelli dei Caraibi (si pensi per tutti ad Haiti).
La ricchezza, il benessere, il livello di civiltà di un Paese dipendono dall’intelligenza, dal livello di istruzione, di conoscenza, di “know how” tecnologico della sua popolazione. Ora, questi ultimi sembrano dipendere, contrariamente a quanto i democratici cercano di persuaderci da settantanni, da fattori genetici molto più di quanto siamo soliti pensare. PER UNA COINCIDENZA DAVVERO BIZZARRA, si trovano in proporzione esattamente inversa al tasso medio di melanina presente in una popolazione. Se continuiamo a importare africani, se non ce ne liberiamo, finiremo a vivere in un Paese africano a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze relative.
Non si tratta però soltanto della nostra disgraziata Italia, la cui sorte si inserisce in una posizione particolarmente infelice in quello che è un trend negativo a livello mondiale.
Giampaolo Pansa è un intellettuale che è una vera mosca bianca nel desolante panorama italiano, e per il quale non si può non avere il massimo rispetto e la massima considerazione. Partito da posizioni di sinistra, impegnandosi in una ricerca storica sugli anni della guerra civile 1943-45, è venuto a scoprire tutto l’orrore, tutta l’atrocità della guerra partigiana, della cosiddetta resistenza, che non fu guerra di popolo contro lo straniero (alleato fino al giorno prima) ma azione banditesca al servizio di altri stranieri (“alleati” angloamericani e sovietici) e soprattutto vigliacca e atroce rappresaglia contro coloro che avevano continuato a combattere lo stesso nemico, una lunga serie di crimini e di eccidi sapientemente occultati. Quanto più facile, quanto più consono al costume dei nostri intellettuali sempre pronti a vendersi al padrone di turno, gli sarebbe stato continuare a nascondere la verità come è usa fare la maggior parte dei suoi colleghi, sacerdoti e vestali della menzogna “resistenziale”, invece di dire e di cercare di far conoscere al grosso pubblico le cose per come effettivamente stanno!
Riguardo all’argomento che adesso ci interessa, Giampaolo Pansa aveva scritto anni fa un articoletto: “Poco o niente: eravamo poveri, torneremo poveri”, che girò un po’ almeno nei nostri ambienti (in altri, non credo, penso che presso i “compagni” un “traditore” della causa dell’antifascismo che si mette a sfatare il mito del progresso, non incontri grossa popolarità, indipendentemente dalla validità di quello che dice, che non conta molto per chi è abituato a ragionare per slogan).
Si trattava di un articoletto alquanto breve, ma che sicuramente valeva parecchi trattati di sociologia. Il concetto di base era piuttosto semplice: l’Italia è per sua natura un Paese povero, senza importanti disponibilità di materie prima né risorse energetiche. I nostri nonni e padri sono riusciti a farla uscire da una condizione di miseria atavica grazie alla laboriosità, allo spirito frugale, alla fiducia di poter dare ai propri figli una condizione di vita migliore della propria (oltre a ciò, sebbene Pansa non lo dica, va considerato anche il buono stato sociale costruito dal fascismo, anche se i frutti sono venuti dopo la guerra, consentendo il grande “balzo in avanti” degli anni ’50).
Si tratta tuttavia di un treno che la nostra generazione e quella dei nostri figli hanno sostanzialmente perso, per una serie di motivi che vanno dalla perdita della spartana frugalità dei nostri padri, alla diffusione del mito del lavoro che “non sporca le mani”, cioè il lavoro non produttivo, il non-lavoro, come se una società potesse essere pressoché interamente composta da burocrati di alto livello, fino alla congiuntura internazionale oggi non più favorevole come allora.
Ultimamente, Pansa è tornato sull’argomento con un articolo apparso su “Libero news”, “Fare i conti con la grande paura, quella di tornare un Paese povero”. Una grande paura che purtroppo corrisponde alla previsione realistica sul nostro domani. Certamente i nostri figli pagheranno un prezzo estremamente pesante per la “crisi” che ormai perdura dal 2008 e che non possiamo più considerare qualcosa di transitorio. La morale che non vogliamo trarre (e Pansa fa un appassionato riferimento alla storia della sua famiglia, sollevatasi da un’ancestrale miseria), è che il benessere non è una conquista definitiva.
Questo genere di considerazioni, devo dire la verità, non mi coglie impreparato. Eravamo qualcosa come un quarto di secolo fa, il muro di Berlino e l’Unione Sovietica erano crollati da non molto, e si cominciava appena a intravedere una vaga alba di quello che sarebbe stato il mondo globale, non più diviso da frontiere insormontabili. Su “L’Espresso” che non si può certo considerare una pubblicazione di destra o conservatrice, comparve un articolo di Giuliano Amato che spiegava che con la globalizzazione saremmo stati tutti più poveri.
Naturalmente, ci possiamo e ci dobbiamo chiedere come mai l’ineffabile Dottor Sottile e quelli che come lui erano a conoscenza delle Secrete Cose, se erano consapevoli di tanto, non ritennero di dover fare assolutamente nulla, a parte rifilarci menzogne consolanti, per attenuare il nostro impatto nell’economia globale, magari con qualche misura protezionistica che dopotutto non sarebbe stata un delitto contro l’umanità, tuttavia il ragionamento, anche se mi rimase inesplicabile quel momento di sincerità improvvisa, era di una logica stringente: con la globalizzazione, il nostro mercato del lavoro si sarebbe trovato a essere solo una parte del mercato mondiale: per la legge della domanda e dell’offerta, le grandi masse mondiali di braccia da lavoro non qualificate avrebbero finito per deprezzare i nostri lavoratori, che si sarebbero dovuti accontentare di salari inferiori e condizioni di vita peggiori.
Una profezia che si sta realizzando anche troppo prontamente, con un’aggravante, che non occorre andare dall’altra parte del pianeta per trovare la concorrenza delle braccia non qualificate del Terzo Mondo, oggi l’immigrazione ce le porta in casa a fiumi.
Non è la prima volta che mi occupo di tematiche di questo genere. Nella fantascienza, ad esempio, continua ancora oggi a prevalere un immotivato atteggiamento progressista che di fatto distrugge la credibilità di questo genere di narrativa.
Nel 2011 a Trieste nel fascicolo di presentazione della manifestazione “SciencePlusFiction” c’era un articolo dello scrittore Tullio Avoledo (l’autore di “L’elenco telefonico di Atlantide”) dove si diceva:
“La fantascienza è entrata nel nostro quotidiano. Le cronache di economia e di politica del 2011 sembrano uscite dalla penna di Ron Goulart. Certi smartphone farebbero impallidire qualsiasi gadget di Buck Rogers. Sui giornali appaiono normalmente parole e concetti come clonazione, droni, mondi alternativi, pianeti abitabili fuori dal sistema solare, computer quantici, superneutrini che viaggiano lungo un tunnel di 700 km tra la Svizzera e il Gran Sasso”.
Gli risposi con un articolo destinato a comparire sulla pubblicazione on line “Continuum” ma che non fece in tempo a uscire per la cessazione poco più tardi della stessa:
“Certo, se potessimo veramente credere che il nostro mondo sia sul punto di trasformarsi in qualcosa di simile a quello di Buck Rogers o di Star Trek, non c’è dubbio che vivremmo meglio, ma c’è da chiedersi se i super smartphone e gli esperimenti con le particelle elementari permessi da acceleratori costosissimi non siano gli ultimi guizzi di lusso concessisi da un nucleo ancora privilegiato della nostra specie mentre il resto di essa si va sempre più scontrando con la penuria di risorse, e infatti Avoledo che può non avere ragione in questo caso, ma è fuori di dubbio un uomo intelligente, poche righe più sotto si domanda come mai negli anni ’70 quando si viaggiava sulle FIAT 124 si scriveva di viaggi interplanetari, mentre un quarantennio più avanti nel futuro la fantascienza ha molta minore stima e visibilità.
La verità che abbiamo voluto ignorare è molto semplice, ovvia: il mito di un progresso illimitato si deve necessariamente infrangere contro i limiti fisici ed ecologici di un sistema chiuso quale è il nostro pianeta; eppure l’aveva già chiaramente spiegato nel 1970 il Club di Roma nel saggio/rapporto “I limiti dello sviluppo”.
Tutte le generazioni che ci hanno preceduti approssimativamente dalla fine del XVIII secolo ai nostri padri, hanno avuto la fondata speranza che i loro figli avrebbero avuto una vita migliore di quella dei propri genitori. Noi oggi questa speranza non la possiamo più avere, anzi è del tutto verosimile che l’avvenire sarà più difficile e problematico del presente”.
Altri elementi possono arricchire ancora questo quadro. Poiché è sempre bene tenere d’occhio anche quanto avviene “sull’altra sponda”, e qui ci fa gioco il lavoro di osservazione svolto dal nostro ottimo Luigi Leonini, egli ci segnala a questo riguardo un articolo recentemente comparso sul sito “Keinpfutsch” di Uriel Fanelli, “La finta occupazione e le lauree che rincretiniscono” che ci presenta una tesi interessante: il grosso aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, che constatiamo negli ultimi anni, potrebbe essere un fenomeno più apparente che reale, nel senso che l’occupazione vera, produttiva sarebbe rimasta all’incirca ai livelli di vent’anni fa, ma quella che sarebbe venuta gradualmente meno, sarebbe la finta occupazione rappresentata da tutta una generazione presa tra la rincorsa a pezzi di carta, lauree, master completamente inutili, creati apposta per toglierli dalla lista dei disoccupati, e lavori saltuari, part time, a termine, con cui i trentenni e oltre hanno un po’ alleggerito a mamma e papà il compito di continuare a sostenerli.
Del fatto che le pseudo-lauree che non portano a uno sbocco occupazionale abbiano un effetto rincretinente, l’autore fa un esempio citando il caso di una laureata in pedagogia che non si rende conto del fatto che aver studiato altrettanti anni di un ingegnere per una specialità non spendibile sul mercato del lavoro, non la qualifica allo stesso modo. Voi vi sentireste al sicuro abitando in una casa progettata da una maestra mancata, o magari se entrando in una sala operatoria ve la trovaste col bisturi in mano?
Senza arrivare magari a casi così estremi, è evidente come questo discorso si salda a quello di Pansa: è stato il sogno del lavoro “che non sporca le mani”, che garantisce agiatezza senza faticare, che ha permesso di rinchiudere una generazione in un cul-de-sac occupazionale.
A tutto ciò si aggiunge, come ho detto, il deprezzamento del lavoro portato dall’immigrazione. Sicuramente, se dovessimo fare un elenco degli svantaggi e dei danni che comporta per noi l’immigrazione, sarebbe certamente molto lungo, in compenso, l’elenco dei vantaggi che essa ci dà è molto più breve, si riassume in una parola: NESSUNO!
Fino a qualche tempo fa esisteva la leggenda che l’immigrazione potesse portare un certo vantaggio almeno dal punto di vista fiscale: più persone, più operatori economici, maggiore prelievo fiscale. Bene, oggi l’OCSE (non Voxnews, non “Tutti i crimini degli immigrati”, non qualche sito di estrema destra, l’OCSE!) ci dice che questa leggenda è falsa.
A fronte dei precisi costi e danni di tipo economico e non economico dell’immigrazione, a fronte del fatto che i migranti impoveriscono i Paesi di arrivo già per il fatto che più aumentano gli abitanti, più diminuiscono le risorse pro capite, e a ciò vanno aggiunti i conflitti con la comunità nativa, il degrado urbano, il deterioramento del sistema scolastico e di quello sanitario che la presenza dei migranti comporta, i conflitti religiosi, l’intolleranza verso le nostre usanze, la tendenza a imporre le loro, l’inciviltà, l’arroganza, la sporcizia, la propensione a delinquere e via dicendo, si pretendeva di mettere sull’altro piatto della bilancia questo presunto piccolo vantaggio fiscale.
Ebbene, ha recentemente confessato Jean-Christophe Dumont responsabile della Divisione Migrazioni Internazionali dell’OCSE in un’intervista comparsa in italiano sul blog “Informare”, che anche questo presunto vantaggio è un’illusione. Se si considerano i dati dell’ultimo mezzo secolo (ma cinquant’anni fa l’immigrazione extracomunitaria era un fenomeno pressoché inesistente), fra sussidi pagati dagli stati ospiti ai migranti e prelievo fiscale, si va pressoché a pari, ma negli ultimi vent’anni i sussidi erogati hanno sorpassato nettamente il prelievo fiscale. Anche da questo punto di vista l’immigrazione è soltanto un danno e una perdita secca per i Paesi ospitanti, per i quali la cosa migliore sarebbe di gran lunga rifiutarsi di accogliere queste persone ed espellere coloro che si sono insediati illegalmente nei loro territori.
Tutto questo, naturalmente, almeno che non ci aspetti uno scenario ancora più tetro. In una relazione tenuta alla Texas Academy of Sciences di Austin (Texas) il 3 marzo 2006, in vista delle conseguenze dell’esaurimento dei combustibili fossili, lo zoologo Eric R. Pianka aveva proposto la riduzione dell’umanità attuale a 2 miliardi di persone (un terzo di quelle oggi viventi) tramite sterilizzazione forzata o mediante la diffusione di epidemie. La relazione doveva essere segreta, e ne sappiamo qualcosa grazie a uno studente che ha preso appunti di nascosto.
Già il 24 aprile 1974 una proposta dello stesso genere era stata avanzata da Henry Kissinger nel “Memorandum 200” per la Sicurezza Nazionale in cui, secondo lo statista, lo spopolamento mondiale doveva essere un obiettivo prioritario della politica degli Stati Uniti.
Guardate quello che sta accadendo adesso con l’ebola che ha buone probabilità di trasformarsi da problema africano in una pandemia planetaria, ditemi se siete sicuri che questa espansione e l’elusione dei controlli di sicurezza per esempio negli ospedali e non solo quelli africani, non siano in qualche modo provocate e se, dopo averci riflettuto sopra, riuscite ancora a dormire sonni tranquilli.
Fabio Calabrese
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