Comincio questa terza parte in una maniera inconsueta: scusandomi. Talvolta capita di commettere errori, e bisogna avere l’onestà e l’umiltà di ammetterli. Mi scuso con lo scrittore Tullio Avoledo, che ci ha fatto pervenire questa precisazione relativa al mio articolo precedente, alla quale mi sembra giusto dare l’opportuno risalto:
“Guarda che il Tunnel del Gran Sasso era la famosa ca**ata della Gelmini. E che non c’è nessuno più convinto di me che quello che la massa considera progresso, sia in realtà il perfezionamento di tecnologie inutili o dannose. Nel mio romanzo “L’elenco telefonico di Atlantide” descrivevo la Terra come una tomba egizia, che si è preclusa lo spazio riempiendolo di satelliti utilizzati per diffondere programmi idioti e telefonate più idiote ancora. Il nostro “progresso” è un F 35 pilotato da un idiota”.
Diamo a Cesare quello che è di Cesare, e a Tullio quello che è di Tullio. Personalmente, sono lieto di constatare che un uomo intelligente e un bravo scrittore non si allinea ai corifei dello scontato catechismo progressista.
Detto questo, vi confesserò che ero alquanto riluttante all’idea di aggiungere una terza parte ai due articoli che ho già scritto, ma mi sono accorto di non aver risposto, o di aver risposto in misura insufficiente a una domanda peraltro scottante: man mano che l’intelligenza artificiale, informatica e robotica, si sviluppa nella maniera che abbiamo sotto gli occhi, cosa succede dell’intelligenza naturale, dell’intelligenza umana?
In queste cose sembra spesso giocare un ruolo importante quel che gli anglosassoni chiamano “serendipity”, ossia la capacità – la fortuna – di trovare quello che serve al momento opportuno, senza averlo cercato. Nel mio caso, si è trattato di un libro del 2003 che mi è capitato per le mani in maniera affatto casuale, “Gente di domani” di Susan Greenfield (edizioni Newton Compton). L’autrice mi sembra una convinta sostenitrice del movimento trans-umanista o post-umanista, fra coloro cioè che cercano di persuaderci al massimo della bontà e della bellezza di vivere in un mondo iper-tecnologico in cui sia addirittura sparita, a forza di innesti cibernetici, la distanza fra uomo e macchina, la differenza fra realtà virtuale e realtà concreta, e tutti noi saremo destinati a diventare dei cyborg, creature in parte biologiche e in parte organiche.
Ebbene, nonostante i tentativi di presentare un simile futuro nei termini più idilliaci possibile, ecco cosa le scappa di dire (pagina 82):
“Dopo tutto, le generazioni future conosceranno soltanto oggetti instabili e fatti transitori che svolazzeranno dentro e fuori dalla testa”.
Per capire esattamente il significato di questa affermazione, condividerò con voi un ricordo di molti anni fa. All’epoca ero studente all’università di Trieste, e in quel preciso momento mi apprestavo a sostenere un esame. Assieme a diversi altri studenti, ero in attesa del professore che doveva esaminarci e che, come al solito, era in ritardo.
Poiché l’attesa si prolungava, una assistente decise di venire a fare quattro chiacchiere con noi. Ci guardò con aria strana e ci disse:
“Io, a voi studenti, vi compiango!”
(Ricordo bene anche la sgrammaticatura, con l’uso del complemento di termine invece del complemento oggetto).
Naturalmente, pregammo la (non tanto) gentile signorina di spiegarci il significa di una simile affermazione.
“Vi compiango perché”, rispose, “Voi andrete a insegnare alla generazione dei ragazzi che stanno nascendo adesso, e sarete in serie difficoltà, perché questi ragazzi cresceranno in un ambiente mediatico molto più ricco di stimoli di quello in cui siete cresciuti voi, e saranno molto più intelligenti di voi”.
A quell’epoca non c’erano ancora i computer, internet, la realtà virtuale, ma c’era già la televisione, che si stava diffondendo sempre di più e diventava una presenza sempre più incombente nella vita delle persone, e soprattutto per i più piccoli stava diventando una sorta di “balia elettronica” a cui i bambini erano affidati dalle famiglie per sempre più ore della giornata.
In tutta franchezza, una simile profezia mi sgomentò e mi lasciò una sorta di angoscia che mi portai dentro fino a quando non cominciai effettivamente a insegnare. Poi, a riprova di quanto sia arduo il mestiere del profeta e di quanto sia facile prendere cantonate, non solo di una simile fioritura di geni non ho visto la minima traccia, ma ho potuto constatare il costante e progressivo degrado delle istituzioni scolastiche, dove i docenti sono costretti ad abbassare sempre di più il livello di aspettative e richieste per non fare strage di intere classi a forza di bocciature (oggi sembra quasi che sia più facile condannare in tribunale piuttosto che non promuovere qualcuno).
Naturalmente, ho cercato di darmi una risposta circa il mancato adempimento della profezia di quella “cara” assistente. Tutto parte naturalmente dal discorso degli stimoli sensoriali: il cervello umano è normalmente affamato di stimoli, soprattutto nell’età infantile è una vera spugna pronta ad assorbire e rielaborare le sollecitazioni offerte dall’ambiente. Gli psicologi sanno bene che una condizione di deprivazione sensoriale è un grave ostacolo allo sviluppo dell’intelligenza.
Noi abbiamo bisogno anche di cibo, bisogna mangiare per vivere, ma quando si eccede, le conseguenze possono essere spiacevoli. Un’indigestione può essere una brutta esperienza, ma le sue conseguenze sono ancora nulla rispetto a quelle di una sovra-alimentazione cronica che determina l’obesità.
Mi è venuto da pensare che per quel che riguarda gli stimoli sensoriali, valga più o meno lo stesso discorso: L’ECCESSO di stimolazione, non solo non favorisce lo sviluppo dell’intelligenza, ma lo ostacola. Non solo, ma con ogni verosimiglianza, il bombardamento mediatico cui siamo sottoposti cambia letteralmente il modo di fruire stimoli sensoriali, input, informazioni, soprattutto per quanto riguarda le menti giovanili, che sono meno strutturate e non abituate ad altre modalità comunicative.
Tuttavia, anche noi adulti possiamo fare facilmente un piccolo esperimento per renderci conto di come stanno le cose. Provate a seguire con attenzione un telegiornale, poi lasciate passare un quarto d’ora e provate a stilare un elenco dei servizi che avete ascoltato, e degli argomenti che trattano, vedrete quanto questo esercizio in apparenza banale, vi riesce difficile. Invece, potrete constatare che queste difficoltà non esistono se fate la stessa cosa con gli articoli che avete letto su di un giornale di carta stampata, anche a prescindere dal fatto che il giornale potete sempre andare a rileggerlo.
Gli stimoli mediatici, proprio per il ritmo cui sono presentati, non si lasciano assimilare con facilità, e tanto meno rielaborare, RIMBALZANO. Bene, ora provate a immaginare quale effetto può avere tutto ciò soprattutto sulle menti giovanili che non sono abituate a nessuna altra modalità comunicativa. Capiamo esattamente cosa ha voluto dire, o non ha potuto evitare di dire la Greenfield con quella frase:
“Dopo tutto, le generazioni future conosceranno soltanto oggetti instabili e fatti transitori che svolazzeranno dentro e fuori dalla testa”.
Un pensiero SVOLAZZANTE, incapace di fissarsi su contenuti stabili e di rielaborare le conoscenze, questo precisamente è già adesso quello che passa per la testa dei nostri ragazzi.
Un altro ricordo scolastico, non così datato come il precedente, sarà utile a chiarire ancora meglio il concetto.
Alcuni anni fa, mi trovai a uno scrutinio di fine anno dove tutti o quasi gli allievi di una classe erano insufficienti in matematica. Il preside, di fatto, sospese lo scrutinio e ci tenne una breve lezione di psicologia: questi nostri giovani, indigeni dell’era informatica, nativi digitali come si è cominciato a dire, sono abituati a una fruizione molto rapida ed effimera delle informazioni, dove gli stimoli lasciano rapidamente il posto ad altri stimoli, e nessuno scende in profondità. Questo ha creato quella che gli psicologi chiamano la MENTALITA’ REATTIVA, ossia capace solo di rispondere agli stimoli immediati e in cui si è persa quella capacità di rielaborazione logica che è indispensabile per cavarsela nel mondo rigoroso della matematica.
Occorre anche dire che i concetti e la visione del mondo che attraverso la TV, i videogiochi e via dicendo, il sistema mediatico cerca di instillare nei nostri giovani, è un’altra questione che non si può guardare senza preoccupazione.
Anni fa esattamente nel 2006, su questo argomento sul sito di “Disinformazione”, www.disiformazione.it , apparve un bell’articolo di Antonella Randazzo, “Come manipolare l’esistenza senza farsene accorgere”. L’autrice sottolineava il fatto che i programmi televisivi e i videogiochi hanno una profonda influenza sulla visione del mondo dei più giovani, un’influenza che non si può definire in altro modo che DELETERIA, e un genitore saggio e responsabile dovrebbe non ridurre, ma impedire l’accesso dei propri figli a TV e videogiochi.
Ciò che l’una e gli altri insegnano è la violenza, il considerare i comportamenti violenti come normali, mentre non esiste spazio per la mediazione e il compromesso, il considerare le esigenze degli altri, l’empatia che sono fondamentali nelle relazioni umane. Quel che forse è peggio, è che in televisione e nei videogiochi la violenza si presenta in forma anestetizzata, non si vedono le conseguenze che provoca in termini di sofferenza di coloro che ne sono vittime. In questo modo viene a mancare la naturale empatia che proviamo di fronte al dolore altrui.
Io penso che la Randazzo abbia ragione e che molti episodi di violenza, fino alla strage, su cui le cronache hanno portato la nostra attenzione, opera di adolescenti soprattutto americani, ma anche in Europa, ispirati da motivi futili come ottenere l’attenzione mediatica, si spiegano precisamente alla luce di questo tipo di “educazione”.
Tuttavia, io penso che a lungo termine il declino dell’intelligenza rimanga il problema più grave.
A questo riguardo, recentemente è stata condotta una ricerca negli Stati Uniti che ha mostrato dei risultati sorprendenti, essa ha rivelato che l’attuale Q. I. medio della popolazione americana bianca è di 99, mentre quello della popolazione di colore è di 84. La precedente rilevazione, connessa con l’introduzione in grande stile della scala Stanford-Binet per la valutazione del quoziente d’intelligenza, aveva dato 100 e 85; anzi, il valore 100 della scala era stato determinato sulla base del quoziente d’intelligenza medio della popolazione bianca americana.
Si vede che lo scarto di quindici punti fra i quozienti d’intelligenza medi della popolazione caucasica e di quella afro-americana, è rimasto invariato, ma entrambe le comunità sono regredite di un punto, e questo a mio parere prova che, se la componente genetica dell’intelligenza è rimasta invariata, quella culturale è in declino, perché non basta avere alla nascita un buon potenziale intellettivo, occorre che l’educazione e l’ambiente forniscano poi gli stimoli giusti.
Naturalmente, occorre dire che se invece di scorporare i dati relativi alle due comunità, si considera la popolazione statunitense nel suo complesso, il declino dell’intelligenza è considerevolmente maggiore di un punto percentuale, perché la composizione demografica si è spostata a favore dei neri con il declino della comunità bianca. Che i neri siano meno intelligenti dei bianchi, non è un’opinione, è un fatto scientificamente dimostrato, e certamente con l’immigrazione extracomunitaria che ci invade, l’Europa seguirà lo stesso destino degli Stati Uniti.
Noi possiamo provare ad ampliare la nostra prospettiva, e chiederci come si è sviluppata e quale esito è possibile prevedere per l’intelligenza umana in un lungo arco di tempo.
Noi ovviamente non possiamo sottoporre a test di Q. I. uomini vissuti migliaia di anni fa e di cui ci sono rimasti solo i resti fossili, ma possiamo considerare le dimensioni della scatola cranica e quindi del cervello come un indizio della loro intelligenza. In effetti, la questione è un po’ più complessa, occorre considerare sia le dimensioni assolute del cervello, sia il rapporto fra di esse e la massa corporea.
In termini di dimensioni assolute, il cervello di un elefante è più grande di quello di un uomo, ma bisogna considerare che ha una massa corporea ben maggiore da controllare. Un elefante non è più intelligente di un uomo, anche se si tratta di un mammifero intelligente e dall’ottima memoria.
All’estremo opposto della scala, il cervello di un ratto è più grande di quello umano in proporzione alla sua massa corporea, ma contano anche le dimensioni assolute, perché le dimensioni dei neuroni sono all’incirca uguali in tutto il mondo animale, anche se varia il loro numero, e un ratto non è più intelligente di un uomo, anche se si tratta di animali intelligenti e difficili da eliminare, come ben sanno i disinfestatori.
Quindi, per avere un indizio valido sulle capacità intellettive, occorre considerare sia le dimensioni assolute del cervello, sia il rapporto fra esse e la massa corporea.
I cervelli più grandi in senso assoluto mai comparsi nell’umanità, sembrano essere stati quelli degli uomini di neanderthal. Bisogna dire però che avevano cervelli più grandi dei nostri, ma con una struttura diversa, con un minor sviluppo dei lobi frontali e più estesi nella parte posteriore, il che dava ai loro crani una caratteristica forma “a pagnotta”. Si pensa che, anche se più grossi dei nostri, i cervelli neanderthaliani avessero un’organizzazione neuronale diversa e meno efficiente, e fossero quindi meno intelligenti dei nostri antenati “sapiens sapiens”, anche se non lo si può sapere con certezza.
Dopo di loro, arriva l’uomo di Cro Magnon, il cacciatore paleolitico dell’età glaciale, il tipo umano meglio costruito fisicamente e psicologicamente che sia mai apparso.
Un fatto che ha provocato parecchie discussioni fra i ricercatori, è che dal paleolitico al neolitico, le dimensioni delle scatole craniche e dei cervelli mostrano una netta riduzione. In realtà, la cosa non è per nulla misteriosa: con il passaggio al neolitico, l’uomo si è trasformato da cacciatore nomade in agricoltore stanziale, e la sua alimentazione è basata soprattutto sui cereali con un molto minor apporto proteico. Questo permette alle comunità umane di essere molto più numerose rispetto all’epoca della caccia e raccolta, ma individualmente le condizioni alimentari subiscono un netto peggioramento, da qui un minore sviluppo corporeo e anche della scatola cranica e del cervello, probabilmente senza nessun serio pregiudizio dell’intelligenza.
Questa situazione si è protratta con oscillazioni di diversa entità per millenni, con variazioni corporee e cerebrali che probabilmente non incidevano sull’intelligenza, dipendenti dalle condizioni alimentari. Per la cronaca, almeno riguardo all’Italia, l’epoca in cui gli scheletri dei nostri antenati presentano la taglia minore, le condizioni alimentari dovevano essere peggiori, è stata il XVII secolo, il seicento.
Le cose cambiano con la rivoluzione industriale: le cause non sono ben chiare; probabilmente, oltre alla migliore alimentazione, giocano le condizioni di vita che permettono la sopravvivenza di individui che in altre epoche non sarebbero riusciti né a sopravvivere, né tanto meno a riprodursi, ma le conseguenze sono chiare: mentre assistiamo a un generale aumento della taglia corporea, le dimensioni del cervello e, per quel che ci è concesso di verificare, l’intelligenza, sembrano in costante diminuzione.
CI STIAMO AMERICANIZZANDO anche da questo punto di vista, ci stiamo trasformando in giganti stolidi e ipervitaminizzati. E’ stato calcolato che proseguendo le tendenze attuali, basteranno alcuni secoli perché l’umanità non abbia più abbastanza intelligenza per gestire una società tecnologica complessa.
Ora fateci caso: tutti i provvedimenti che potremmo prendere per arrestare il declino della nostra specie: prima di tutto una rigorosa politica eugenetica, ma anche bloccare l’immigrazione extracomunitaria, dando così alle popolazioni caucasiche maggiori possibilità di continuare a esistere e riprodursi, non vi suonano “fascisti” in maniera francamente sgradevole secondo l’ottica e la morale dei “buoni” democratici?
Fabio Calabrese
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