Il viaggio nel Tempo e nella Storia dell’uomo viene raccontato come una progressione costante dalla barbarie alla civiltà, un percorso lineare le cui tappe principali sono rintracciabili nella nascita dell’agricoltura, della metallurgia, delle tecniche complesse, delle strutture di governo. Su questa base si è sviluppata l’incredibile idea che gli esseri umani, apparsi sulla Terra dai 3 ai 5 milioni di anni fa, siano rimasti tutto il tempo con la clava in mano per svegliarsi una mattina all’improvviso.
Seguendo lo stesso metodo di analisi si è anche dedotto che l’attuale società umana sia la più evoluta in assoluto grazie alla sua ultimogenitura, mentre gli uomini del passato sarebbero stati dei sempliciotti che credevano a «cose prodigiose» fatte da divinità mai realmente esistite bensì immaginate sotto la spinta di desideri insoddisfatti. I famosi «dèi» sarebbero insomma figure puramente simboliche nelle quali l’antenato primitivo avrebbe proiettato l’amore di sé e della vita.
Ma perché non accantonare per un momento i mentalismi e ricercare la verità nella semplicità? Il mondo cambia quando lo si guarda da un’altra prospettiva, e, fino a prova contraria, il principio del rasoio di Occam funziona. E’ dunque assai probabile che nell’arco di milioni di anni la Terra abbia ospitato un numero imprecisato di civiltà umane, ognuna delle quali avrà toccato l’apice di un processo di crescita e sviluppo prima di auto-estinguersi.
Per una causa che va al di là dell’umana comprensione ogni sistema fisico, ogni organismo, ogni ordine spontaneo (universo incluso) tende naturalmente al caos. Le società create dall’uomo non fanno eccezione e perciò i cosiddetti «dèi» potrebbero essere stati semplicemente gli eredi di una civiltà decaduta, ovvero individui in carne ed ossa apparsi «straordinari» agli occhi di genti «ordinarie». Basta del resto osservare la mappa del cammino compiuto dalla specie umana negli ultimi 50mila anni per avere un’idea dell’intreccio di «relazioni» e della varietà di «connessioni» derivate dall’alta mobilità dei gruppi umani [immagine 1].
Per millenni spazio e villaggio, natura e uomo, società e paesaggio, hanno costituito un totum comprensivo di piccolo (la comunità) e grande (l’ambiente) dove lo spazio diventava sacrale in virtù della sua totale inclusività (W.E. Mühlmann, Storia dell’antropologia, 1968). Ciò spiega il motivo per cui nessun essere arcaico ha mai valutato il suo mondo dal punto di vista esterno, né sentito il bisogno di concettualizzare idee sull’Altro, il quale, semplicemente, essendo estraneo all’etnocentrum risultava «fuori del comune».
Ogni contatto comportava una perdita per l’Uno e un guadagno per l’Altro poiché le alterità colloquianti presentavano un diverso grado di maturità. In genere toccava all’«antico» fare un passo indietro (in qualità di unica realtà esistente prima che il dialogo iniziasse), dato che l’«attuale» non avrebbe potuto rinunciare a qualcosa che ancora non aveva preso forma.
Dipende da questo continuo gioco al ribasso la scalata di malvagità e barbarie in cui l’uomo è impegnato da millenni, ma è stato inevitabile. Disciolti nel pentolone della società ibrida, dove il brodo ad ogni giro di mestolo s’intorbidava sempre di più, entrambi, l’Uno e l’Altro, non potevano sottrarsi alle richieste dell’umana «natura comunitaria». Anche il batterio portava con sé l’istinto a duplicarsi in due batteri e ciascuno di essi diventava nello stesso tempo madre, fratello e figlio dell’altro disposto allo scambio di fili del proprio Dna, ovvero capace di comunicare.
Chi era l’uomo, per interrompere il ritmo cosmico in cui si fondeva la specificità di ogni singola coscienza? L’Antico (il primordiale) perdeva così la propria identità, la propria cultura, la propria patria, salendo sulla giostra degli sradicamenti meticciati, dei livellamenti sociali e delle elementarizzazioni cognitive, mentre l’Attuale (il primitivo) veniva privato delle certezze del proprio etnocentrum e cominciava a tormentarsi. E via, avanti di questo passo.
Persino i razionalisti moderni spiegando il mondo fisico attraverso la genetica e l’ambiente hanno dovuto arrendersi al concetto di «interazione», che è il loro modo di chiamare il «mistero». Piaccia o non piaccia l’intera vita terrestre è intessuta di corrispondenze, logica e ragione sono facoltà utili a distinguere e discernere ma soltanto le esperienze fatte in comune offrono alcune parziali risposte ad un numero limitato di «cose inspiegabili». Il resto è un mistero.
Fatti per stare insieme
La società umana è il risultato di una complessa alchimia basata sulle relazioni e sulle interazioni possibili in un dato momento. Quindi il progetto individualista perseguito dall’attuale Cupola di potere come modello di ingegneria sociale si configura alla stregua di una malattia mentale. “La natura non è ordinata all’individuo, bensì alla specie, alla conservazione della quale tende con ogni serietà prodigandovi con cura un meraviglioso eccesso di germi e la grande potenza dell’istinto riproduttivo. L’individuo, invece, non ha per natura nessun valore” (A. Shopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, 1969).
L’uomo padrone di sé e svincolato da ogni relazione descritto da Stirner e pensato da Nietzsche è in realtà un povero diavolo vittima di se stesso. Un individuo ripiegato sull’Io e incapace di prendere le distanze dalle passioni che lo possiedono. Uno schiavo delle istanze del biologico che urgono in lui/lei. Un oppresso lontano da ogni possibilità di riscatto.
Qualora si realizzasse il «superuomo» non più nietzschiano ma ormai bionico auspicato dall’ideologia transumanista, la condizione umana peggiorerebbe ulteriormente in quanto l’orizzonte del cyborg non è la forma che definisce bensì l’immedesimazione nel divenire. Giudicate troppo fugaci e superficiali le relazioni-interazioni umane verrebbero azzerate e i modelli matematici prenderebbero facilmente il sopravvento.
Estranei a queste dinamiche gli antenati preistorici ponevano invece al centro della vita l’appartenenza del singolo al proprio «grande mondo», o etnocentrum, perciò ogni interferenza esterna veniva considerata figlia di un «altro mondo», ovvero «straordinaria». La qual cosa non era di per sé sconvolgente poiché il moltiplicarsi delle interazioni e delle interferenze tra l’Uno e l’Altro delineava un graduale passaggio antropologico, fino ad innescare il processo di mutazione.
A quel punto il luogo e il tempo precedenti cessavano di esistere in quanto tali, come dimostra la parabola del «pensiero puro» dei vecchi déi-civilizzatori (Sapiens), prima divenuto solido per poter dialogare con il Neanderthal e poi uniformatosi alla mentalità più materiale dei giovani popoli cromagnoidi, ormai in netta espansione demografica e culturale.
Ciò non significa che una specie largamente diffusa come quella neanderthaliana [immagine 2] fosse priva di cognizioni intellettuali, né che il Cro-Magnon (un grande «artista»!) mancasse di aspirazioni culturali, ma solo che l’instancabile vittoria della conoscenza sull’ignoranza chiamata «progresso» è un falso mito generato dallo strabismo dell’economia moderna.
Sotto l’aspetto umano, anzi, si registra un’involuzione: partita dalle antiche collaborazioni «uomini-dèi» l’umanità è arrivata ai rapporti malsani «schiavi-padroni», in conseguenza dei quali oggi il Demens è chiamato a pagare i debiti lasciati da cinquecento anni di sfruttamento coloniale selvaggio. E dire che già Benjamin Franklin aveva previsto le disastrose conseguenze del depauperamento sistematico di continenti, popoli e culture, facendo notare ai suoi contemporanei il disinteresse dei nativi nordamericani verso il «finto progresso» proposto dagli invasori. Uguale fu l’atteggiamento degli indios sudamericani che Darwin portò con sé in Inghilterra allo scopo di farli «istruire» da docenti incaricati di inculcare nelle loro menti i «valori» della civiltà occidentale, i quali alla prima occasione se la diedero a gambe e tornarono in gran fretta nel proprio etnocentrum, dove continuarono a vivere una felice vita da raccoglitori-cacciatori.
Un equivoco di vecchia data
Sugli incontri e sulle relazioni sono imperniati i Miti delle Origini mondiali, i quali si dividono in cosmogonici e antropogonici: nei primi l’arrivo di un Essere Supremo, demiurgo o eroe culturale, dà l’avvio ad un certo mondo traendolo dalla materia preesistente; nei secondi l’apparizione improvvisa di un gruppo umano sopravvissuto ad avvenimenti catastrofici causati dall’acqua o dal fuoco (anche celeste) ricostruisce daccapo un mondo.
Tra i miti cosmogonici più significativi vi sono quelli della colta India vedica, che attorno ai suoi «dèi» elaborò il noto pensiero filosofico-astronomico-religioso basato sulla Trimūrti: inizialmente Brahma, il creatore, mise in moto l’universo; ciclicamente la sregolatezza di Shiva lo destabilizzava affinché questo si rigenerasse; dopo ogni distruzione la chiara luce del sole tornava a risplendere, manifestandosi sulla Terra come «incarnazione» o avatar di Vishnu.
Meno intellettuali i miti antropogonici (tipici del settentrione eurasiatico) ebbero invece a cuore la memoria, espressa attraverso complesse saghe famigliari in cui gli «dèi» finivano spazzati via insieme alle loro civiltà da catastrofi geologiche e climatiche di portata cosmica. Al pari di quella degli uomini la sorte delle divinità nordiche (Sapiens? Cro-magnon?) era nelle mani delle Norne che filavano la rete del Destino e scrivevano il libro del Fato. Ad ogni nuova nascita le tre sorelle si radunavano intorno alla culla per decretare il futuro del neonato (come le tre fate della Bella Addormentata nel Bosco) e ad ogni morte comparivano accanto al letto del moribondo per recidere il filo della vita.
Sembra che il fatidico trio abbia avuto un ruolo-chiave anche nella guerra fratricida che decimò le terze, quarte e quinte generazioni di civilizzatori, causandone l’estinzione. Tutto questo è chiaramente troppo «umano» per essere «divino». Ergo: gli dèi del mito erano uomini e donne ancora in grado di ricordare la propria «natura metafisica» (divina) ma comunque fiaccati da millenni di imprese spericolate ai confini dell’immaginazione (umana).
Esclusi dunque i santi e i profeti (dei quali queste pagine non si occupano) nessun essere umano, o popolo, ha mai ricevuto un mandato celeste al fine di assolvere al «sacramento universale di salvezza». Se lo ricordino i promotori della «teoria della politica mondiale» (Juan Rubio-Ramirez ed altri) formulata su interpretazioni distorte di alcune interpretazioni medioevali del cristianesimo europeo, infine confluite nell’idea a stelle e strisce del Manifest Destiny, cioè lo scopo manifesto. Un principio partito da un equivoco di cui diremo brevemente.
Durante l’Età del Bronzo, cioè attorno all’XIV secolo a.C. circa, nella terra di Canaan l’incontro di Jahvè con gli israeliti diede vita a un «patto» dove dio era il contraente più autorevole mentre il popolo rappresentava l’azionista di minoranza. Gli Inferiori (più numerosi ma meno influenti) si rendevano disponibili ad adorare esclusivamente il Superiore in cambio di favori e protezione. E fin qui, niente di strano. Se non fosse che l’uomo ha il brutto vizio di complicarsi la vita con le sue elucubrazioni mentali.
Gli anziani giunsero così alla conclusione che gli israeliti dovevano ciò che possedevano non a se stessi bensì a dio, il quale operando come Signore assoluto della Storia elargiva ai suoi protetti vari doni. Quindi le fortune famigliari non dipendevano da fattori umani (merito e valore) bensì dalla volontà divina stessa, la quale preferendo le genti d’Israele ne faceva il «popolo eletto». “Quando Jahvè, Dio tuo, disperderà i popoli davanti a te, non pensare: a causa della mia giustizia Dio mi ha fatto entrare in possesso di questo paese … Non a causa della tua ·giustizia e del tuo cuore puro pervieni al possesso della loro terra …” (Deuter. 9, 4-7).
Non è chiaro dove stia il «soprannaturale» in un patto in cui un Superiore, autonominatosi Signore della Storia, premia i sottoposti come in una qualsiasi azienda moderna. Qualche dubbio rimane anche sulle modalità seguite per stringere accordi con l’Invisibile, ma, come si dice, le vie del Signore sono infinite.
Il culto del cargo
Non avendo l’abitudine di stipulare contratti i primi Maestri dell’Umanità non erano degli affaristi, né dei filantropi dal cuore d’oro, ma, probabilmente, uomini e donne che insegnarono i segreti della tecnica (e solo quelli) a chi non possedeva alcuna competenza allo scopo di rendere la propria società più vivibile. Questo punto era ben chiaro nella mente dei pensatori classici, i quali trattarono infatti miti come quelli di Eracle e Cerbero, per esempio, in modo del tutto concreto (storico) anziché scomodare il Divino.
Si pensi ad Ecateo nelle Genealogie, o a Erodoto nelle sue opere, sebbene nessuno sia apparso più lucido e preciso del filosofo-etnografo Evemero da Messina (330-250 a.C. circa), il quale rivisitò le vicende dei Maestri preistorici attraverso la descrizione della paradisiaca isola di Panchea (Παγχαία), una riedizione dell’Isola Bianca polare.
Qualche secolo più tardi i primi cristiani rispolverarono l’evemerismo per confutare la natura soprannaturale degli dèi pagani e avvalorare la duplice natura (umana e divina) del loro Salvatore. Comprensibilmente la politica chiedeva un tributo di passaggio; ma come potevano essere certi che la Bibbia descrivendo l’uomo creato a immagine di dio (Gen. l, 26) non intendesse dire che gli somigliava fisicamente? O forse liberalizzare la signoria dell’uomo sulle creature del mondo (Sal. 8, 7) appariva un boccone troppo ghiotto a cui era difficile resistere?
L’uomo è un essere uguale nella diversità, non essendo stato fatto con lo stampino bensì modellato in tante forme dotate di caratteristiche e capacità differenti. Persino nell’attuale Era dell’iper-informazione convivono sulla Terra i cacciatori-raccoglitori del deserto del Kalahari e i visionari cibernetici della Silicon Valley. Con la differenza, rispetto alla Preistoria, che gli uni sono al corrente dell’esistenza degli altri perché oggi il mondo è avvolto in una rete di iperfibre che garantisce ai contatti e alle comunicazioni il massimo della velocità possibile.
E’ tuttavia sufficiente spostare di qualche minuto le lancette dell’orologio della Storia per trovare reazioni sorprendenti suscitate da apparizioni improvvise di elementi estranei in un determinato etnocentrum. Tra le altre: i guineani che offrirono preghiere e sacrifici al naturalista Frank Hurley e al suo idrovolante, entrambi ritenuti di origine divina. Sebbene il caso più eclatante, quello che indusse gli antropologi ad inserire nei manuali il termine «culto del cargo», sia legato all’arrivo di alcuni soldati statunitensi nelle isole Vanuatu durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel gruppo incaricato di contrastare l’arrivo dei Giapponesi c’era anche un militare di colore e gli abitanti dell’arcipelago, colpiti dalla sua pelle scura così simile alla loro, lo ritennero una specie di Grande Antenato venuto dall’Altromondo per soccorrerli in un momento difficile. Poco dopo la sua partenza il capo tribù riferì di essere stato visitato in sogno dalla «divinità» chiamata Jonfram, guadagnandosi automaticamente il titolo di «profeta del dio».
Il popolo costruì allora un tempio in cui custodire come reliquie alcuni oggetti appartenuti al soldato, del quale gli indigeni iniziarono ad attendere il ritorno. Molte incertezze rimangono sull’origine del nome, forse l’appellativo non era legato alla figura di quel singolo americano (che in effetti si chiamava John Frum) bensì alla circostanza che il militare si fosse presentato alla tribù come “John from America”. Fatto sta che il suono Jonfrom/Jonfram fu associato dagli aborigeni alla discesa miracolosa di un «dio dell’abbondanza» ricco di beni da distribuire al suo popolo. Tutto questo non avveniva in tempi preistorici senza testimoni oculari bensì sotto gli occhi smaliziati degli antropologi.
Nostalgia del futuro
Ancora oggi sull’isola di Tanna viene celebrato ogni mese di febbraio il «Johnfram Day», una festa nel corso della quale i partecipanti sfilano indossando magliette con la scritta T-A USA (Tanna USA Army): l’evento si celebra il giorno 15 perché si ritiene che il «dio» tornerà proprio in quella ricorrenza, non è chiaro però di quale anno.
E comunque c’è poco da ridere: se oggi stesso si verificasse l’«atterraggio miracoloso» di una nave aliena, il Demens non esiterebbe a credere che il cargo sia partito da un pianeta più evoluto (Superiore) appositamente per portare in dono all’umanità terrestre (Inferiore) una strepitosa tecnologia, cioè la «luce di dio» del XXI secolo.
La stessa Modernità che crede solo alla Modernità è di fatto un rifacimento dell’arcaico etnocentrum provvisto di tutti i suoi miti e delle sue tradizioni. Con la differenza che l’Antico poteva parlare laicamente dell’«invidia degli dèi» e della «gelosia di Jahvè» (segno che non li credeva divini) mentre all’allocco incollato h24 allo scemofono è proibito dissentire sui dogmi della «scienza», che è la nuova religione globale.
A conti fatti, quale dei due è il vero primitivo del Ciclo presente? Per fortuna i panni sporchi verranno lavati in famiglia, nel senso che a breve i vissuti affidati ai selfie spariranno dalla rete e sarà come se questa società non fosse mai esistita. Meno male, sarebbe inglorioso tramandare ai posteri il ricordo di un mondo in cui le persone si controllavano reciprocamente e la tecnologia controllava le persone, ormai trasformate in altrettante riserve deambulanti di potere d’acquisto. Meglio dimenticare gli schiavetti un po’ tonti che barattarono la libertà della vita selvatica con la comodità di cliccare, delegando a presunti «esportatori di democrazia» incaricati da un’Autorità Invisibile la gestione di un mondo omogeneizzato.
Se comunque la «legge della Trimūrti» è fondata, la chiara luce del sole tornerà a risplendere in una forma mai vista prima. Dopotutto il Sapiens-Demens è uomo/dio-creatore, perciò non finirà mai di stupire se stesso; a patto che lavori sodo per mantenere la propria «divinità» e non perda la speranza. Un sentimento a cui sant’Agostino attribuì due bellissimi figli: lo sdegno (per la realtà delle cose) e il coraggio (per cambiarle).
Comportati con onestà intellettuale in ogni istante della tua vita, dice Agostino, perché “solo il presente è realmente“. Che non significa “cogli l’attimo” bensì vivi il presente nel rispetto del passato. Abbi coscienza di esistere in quel dato momento perché la coscienza è il succo, l’estratto, di una nutrita serie di esperienze pregresse. Ha radici. Costituisce la parte divina posta accanto alla parte umana in cui è custodita l’eredità ricevuta in dono dagli «dèi», cioè il lascito espresso nel comune patrimonio concettuale, religioso, mitologico e allegorico dell’umanità.
4 Comments