“Noi non abbiamo due cuori – uno per gli animali, l’altro per gli umani.
Nella crudeltà verso gli uni e gli altri, l’unica differenza è la vittima”.
(Alphonse de Lamartine)
Il vecchio capro, saggio e barbuto, è amato da tutta la famiglia. Ma quando giunge il momento Isak, fattore temprato dall’asperità di plaghe deserte e fredde, tiene l’animale con una mano e lo scanna con l’altra. I due figli guardano con timore e pietà, piangono. «Povero vecchio capro!» esclama uno. Finito di sgozzare l’animale, il padre li rimprovera. Non si deve mai dire dire: «povera bestia!» e aver pietà quando si ammazza un animale, altrimenti si pena di più ad ammazzarlo. In questa scena, tratta da “Il risveglio della terra” di Hamsun, la pietà e la dura necessità si fondono. Il nesso che le lega è il dolore.
Non ci porremmo da sempre tante domande sulla natura del male se il dolore non ci spingesse a farlo. Male e dolore sembrano coincidere. Noi diciamo infatti: «sento male», quando qualcosa ci duole. Tutte le religioni, le utopie sociali, le farmacopee del corpo e dell’anima, cercano soluzioni al problema del dolore. Soffrire è un’esperienza che accomuna ogni essere vivente. O almeno, questa è la conclusione che sembra suggerirci il senso naturale, l’osservazione dei fatti.
In realtà, io conosco il mio dolore fisico o morale per esperienza diretta, ma mi è impossibile conoscere il dolore degli altri. Lo deduco arbitrariamente, per via analogica. O lo colgo per empatia. Posso immaginarlo, ma non posso esser certo che un altro essere, per quanto mi somigli, provi le mie stesse pene. Tra esseri umani possiamo comunicarci esperienze attraverso i simboli del linguaggio, ma l’affinità che ci par così di riconoscere può essere ingannevole. Potrei persino pensare di essere l’unico a percepire il dolore in mezzo a tanti automi insensibili.
Curzio Malaparte racconta che una sera il suo amato cane Febo non tornò a casa. Dopo penose ricerche lo ritrovò in una clinica universitaria, insieme ad altri cani, tutti legati su tavoli operatori. Con un’espressione che alle anime pie suonerà blasfema, Malaparte scrive che quei cani gli sembrarono tanti Cristi crocifissi. Ma in quel luogo orrendo v’era un silenzio irreale, che provocava un’angoscia ancora più profonda. Perché quei corpi martoriati, che sussultavano, tremavano e lo guardavano con occhi terrorizzati, non emettevano alcun gemito? V’era un silenzio innaturale. Prima di procedere con la vivisezione, gli rispose il medico, gli tagliamo le corde vocali. Questo uomo, che frugava nelle viscere di esseri coscienti, impotenti e ammutoliti dal bisturi, era ancora umano? Forse era un uomo logico, cartesiano, ben educato, ma conservava solo una buccia d’umanità. La sua polpa era ormai disumana.
Quei cani non erano meno consapevoli, né meno sensibili al dolore di un bambino. E quale mostro potrebbe sottoporre dei bambini a quell’agonia? Perché infliggiamo a esseri senzienti e intelligenti quello che ci parrebbe una mostruosità se dovessimo subirlo noi stessi? C’è una deliziosa e feroce satira di Swift , “Una modesta proposta”, in cui l’autore suggerisce di mangiare i bambini poveri e mostra i vantaggi sociali ed economici di questa pratica, la sua innegabile razionalità. Il cannibalismo dei ricchi nei confronti della classe più debole diventa caricatura di una logica spietata, basata sul profitto e sul diritto del più forte. Lo possiamo prendere come metafora delle nostre relazioni con gli animali.
Ciò che giustifica il divorare gli altri, letteralmente o simbolicamente, più che la fame è il paradigma del dominio. Altri paradigmi sarebbero possibili. Ma i paradigmi dell’amore o della libertà, proprio perché rifiutano la logica del dominio, non potranno mai diventare ‘pensiero dominante’. Il dominio, che si nutre di violenza e di sopraffazione, è la loro antitesi. Il nostro sistema di leggi, che pure cerca di porre un argine agli effetti di questo paradigma, non estende agli animali i benefici di alcune garanzie fondamentali come la libertà, la salute, la vita. Ogni anno destiniamo 300 milioni di animali a esperimenti atroci e insensati. Un calvario che dura a volte settimane, mesi, anni. E si calcola siano circa 170 miliardi gli animali che l’uomo ogni anno uccide a scopo alimentare, spesso dopo inenarrabili sofferenze. Questa strage è conciliabile con sentimenti umani, con principi etici?
Stuart Mill risolve il dilemma con un’elegante equazione. In sostanza dice che se il dolore che causo a un animale è superiore al piacere che ne ricavo, compio un atto immorale. Nel caso contrario è invece un atto legittimo. È un ragionamento curioso. In pratica, se metto sul piatto della bilancia l’orribile vita di un maiale d’allevamento e la sua barbara macellazione, ho una certa quantità di dolore. Se sull’altro piatto metto il mio piacere nel mangiare il prosciutto, ho una certa quantità di godimento. Ora devo metterli a confronto e vedere quale dei due pesa di più. Questo mi dirà se sottoporre il maiale a quelle sofferenze è stato un atto morale.
Ma come posso pesare il dolore e il piacere? Potrei sostenere che il dolore del maiale, per quanto intenso e prolungato, non può pareggiare il piacere di mangiarmi una braciola. Un maniaco potrebbe fare lo stesso tipo di ragionamento e concludere che stuprare donne è un atto pienamente etico. Jack lo squartatore probabilmente ragionava come Stuart Mill e, dopo aver fatto due conti, trovava illogico rinunciare al piacere di uccidere e smembrare le sue vittime. Se invece del piacere calcolassimo il profitto, stabilendo una proporzione etica tra il guadagno dell’uomo e il danno dell’animale, temo che il risultato non cambierebbe. Per quanti siano gli animali che soffrono e per quanto grave sia il danno che subiscono, il loro peso su quella ipotetica bilancia sarebbe sempre zero in confronto ai vantaggi che l’uomo presume di trarne.
La storia ci ha abituati a essere disumani. Gli antichi romani avevano usanze che noi oggi diremmo orrende, come crocifiggere la gente o sollazzarsi con spettacoli sanguinari. Ma i romani erano bestie feroci, dice Diderot. Un tempo gli omosessuali venivano arrostiti sulla graticola. I briganti erano squartati, maciullati sulle ruote, e gli interrogatori giudiziari si avvalevano di torture ordinarie e straordinarie. Era il boia a incaricarsi dell’esecuzione materiale dei supplizi. Ma intorno a lui v’era il consenso di persone umane e civili, forse anche di buon cuore, che accorrevano a godersi lo spettacolo. Così, vi è chi sevizia e uccide gli animali solo per soddisfare i nostri appetiti o capricci alimentari. L’abitudine rende accettabili le cose più terribili. “Se i mattatoi avessero le pareti di vetro”, diceva Tolstoj, “saremmo tutti vegetariani”. Eppure, nel ‘700, gli agnelli macellati agonizzavano nel loro sangue in mezzo alla strada mentre i ragazzi si divertivano a sbeffeggiarli.
Millenni di filosofia e di teologia antropocentrica hanno atrofizzato la nostra sensibilità verso gli animali. Il Dio biblico, dopo averli creati, affida all’uomo il compito di soggiogarli. Alcuni esegeti traducono il termine dominio usato nel Genesi come custodia, cura paterna. Ma è difficile dimostrare che la storia nell’insieme conforti questa interpretazione. Aristotele e gli stoici negano loro ogni dignità e diritto. Il cristianesimo, nel momento in cui si pone come sintesi di ebraismo, aristotelismo e stoicismo, garantisce solide basi metafisiche agli allevamenti intesivi, ai mattatoi e alla vivisezione. Agostino, molto prima di Cartesio, immagina gli animali come macchine, e definisce delirante chi si fa scrupolo di ammazzarli. La loro vita e la loro morte sono secondo lui subordinate alla nostra utilità. Nell’infinita varietà delle forme viventi, solo l’uomo è degno di rispetto e gli animali esistono per soddisfare i suoi bisogni.
L’idea è ripresa e corroborata da Tommaso e da tutta la scolastica. Essendo l’apice del creato, l’uomo non ha doveri verso gli esseri inferiori, dei quali può disporre liberamente. In un simile contesto, l’amore per una creatura non umana appare una morbosità deplorevole. Tommaso non approva la crudeltà verso gli animali solo in quanto può indurire l’animo umano, rendendolo crudele anche verso i suoi simili. In questo segue l’antico argomento secondo cui la violenza sugli animali è propedeutica alla violenza sugli uomini. Ma non v’è cenno di compassione per l’animale che subisce quella crudeltà. E se Tommaso depreca chi danneggia un animale che appartiene ad altri è solo perché questo cagiona un danno alla proprietà privata.
Solo eccezionalmente l’uomo occidentale intravede l’identità metafisica che lo unisce alle altre creature. “Una sorte medesima tocca agli uomini come alle bestie… ambedue hanno lo stesso alito di vita e nessuna superiorità ha l’uomo sulla bestia, perché tutto è vanità”, dice l’Ecclesiaste. Questa idea, che salda la frattura ontologica tra uomo e animale, non ha sortito però alcun effetto sulla condotta morale dell’uomo occidentale. Nell’ambito della filosofia medievale una notevole eccezione è rappresentata da Giovanni Scoto Eriugena, filosofo neoplatonico del nono secolo, il quale, ponendosi in conflitto con la tradizione, vorrebbe riconoscere un’anima immortale anche agli animali: “Ma per quanto riguarda l’anima di tutti gli animali irrazionali sono turbato non poco dall’interrogativo che mi pongo, per quale ragione molti dei santi Padri affermano che essa muore insieme con i corpi, e non può sopravvivere oltre”.
Nel XIV secolo Meister Eckhart dirà che il verme, l’uomo e l’angelo sono uguali di fronte a Dio. Sono uguali perché sono un nulla. La coscienza di una medesima vanità, di questo comune nulla, dovrebbe generare in noi un senso di compassione e solidarietà verso ogni essere vivente. Ci potremmo chiedere, con Giovanni Scoto: “Per quale ragione periranno tutte le specie, mentre una sola, quella dell’uomo, è destinata a permanere? Se tutte le specie costituiscono un’unità, come si può concepire che questa unità è destinata in parte a perire, in parte a permanere?”
Nelle dottrine egizie, orfiche, pitagoriche, e in genere nelle filosofie orientali, uomini e animali sono sottomessi ai medesimi cicli di nascita, morte e rinascita. Le loro anime passano da un’esistenza all’altra secondo un’unica Legge. Azioni, pensieri, desideri, trascinano tutti nel vortice della metempsicosi, e ognuno raccoglie i frutti di ciò che ha seminato. L’uomo può rinascere animale e viceversa. Simbolica o reale che sia, questa concezione esprime un’essenziale continuità tra uomo e animale. Nel pensiero occidentale, al contrario, solo all’uomo si apre la via della redenzione e della salvezza. Il resto della creazione sembra destinato al nulla, a sparire nel momento un cui l’uomo non ne avrà più bisogno.
V’è nel nostro pensiero filosofico e scientifico una oggettivazione e reificazione della natura. Solo l’uomo è soggetto, persona. Gli animali sono semplicemente cose, parte del lascito di un Dio antropofilo che si cura unicamente dell’uomo, dei suoi bisogni, e sembra non aver alcun interesse o amore per le altre sue creature. Solo l’uomo pare essere figlio di Dio; dunque gli animali non sono nostri fratelli. Le bestie non possono, come noi, aspirare al bene, alla verità, non hanno dimensione metafisica. Non possono quindi venir comprese nella dignità o nell’amore del prossimo.
Nel medioevo praticare un vegetarianismo etico, cioè provare pietà per gli animali, significava essere eretici. Anche la teologia moderna, tranne poche eccezioni, conserva una visione del rapporto uomo-animale basata sull’opportunismo e l’utilità. Essendo l’animale privo di ragione, l’idea di un Dio-Logos lo esclude da ogni partecipazione alla vita divina. La sua esistenza, in questa prospettiva, ha senso e valore solo in quanto funzionale agli scopi umani. Certi di godere di uno statuto metafisico superiore, abbiamo alimentato per secoli questa idea arrogante, sospesa tra rivelazione, filosofia e senso comune. Ma se anche esistesse una gerarchia di esseri e l’uomo ne fosse il vertice, questo non gli darebbe il diritto di esercitare la sua signoria attraverso soprusi e assassini.
L’uomo ha lanciato sul mondo una maledizione, imponendo alla natura la logica del padrone e dello schiavo, del dominante e del dominato. Uccidere, torturare, sottomettere, significano per lui esibire un potere. L’uomo, questo animale senza zanne e senza artigli, simile per natura a un pacifico erbivoro, si è trasformato nel più esiziale predatore della Terra, nel flagello del pianeta. Gli altri animali sono una popolazione sconfitta, asservita e trattata dal vincitore con inumana crudeltà.
L’astenersi dall’uccidere e sfruttare gli animali mette in discussione il suo dominio sul mondo e frustra la sua volontà di potenza. Mostrare tenerezza verso di loro gli sembra una corruzione di quei radicati modelli virili – il cacciatore, il guerriero – che vengono definiti dallo spargimento di sangue e dalla violenza, e che soli sembrano garantire l’esistenza della nostra civiltà. Ma cosa, se non un sadico piacere, può giustificare oggi la caccia? Sant’Uberto rinunciò per sempre alla caccia e allo sterminio di animali dopo aver visto il crocifisso tra i palchi di un cervo. È all’intercessione di questo Santo che dovremmo affidare gli animali. Ma la Chiesa ha fatto di lui il protettore dei cacciatori!
Il carnivoro proietta sul vegetariano l’ombra della femminilità, della debolezza, e ne esorcizza il fantasma con il sarcasmo o un vago disprezzo. Ma vi sono altre ragioni che spiegano l’ostilità, seppur latente o dissimulata, che la società nutre nei suoi confronti. Superficialmente, il carnivoro potrebbe contestare il limite che il vegetarianismo impone al suo gusto, al piacere del palato. In modo meno banale, potrebbe addurre la difesa di una tradizione e di una cultura. Ma in realtà l’olocausto animale ha in lui radici più sotterranee, affonda nei melmosi sedimenti della sua psiche.
Per tempi immemorabili abbiamo celebrato sacrifici di esseri viventi, anche umani, per ingraziarci gli Dei. Col tempo tale prassi è stata limitata ai sacrifici animali, conservando la rituale spartizione delle carni immolate. Quando Gesù entra nel Tempio di Gerusalemme, dove in occasione della Pasqua migliaia di animali venivano sgozzati, non trattiene la sua indignazione: “avete trasformato una casa di preghiera in una spelonca di assassini!”.
La collera di Cristo pare qui in conflitto con una tradizione indiscussa. Abolire i sacrifici cruenti significava infatti rompere un contratto tra l’uomo e Dio, o almeno quel Dio che apprezza il sacrificio cruento di Abele e rifiuta l’offerta incruenta di Caino. È vero che più volte i profeti avevano riferito il ripensamento di Dio e il suo disgusto per tali abominazioni sanguinarie. Ma i profeti vengono ascoltati solo quando le loro parole riflettono i nostri pregiudizi o desideri.
Anche nel mondo classico si usava sacrificare capi di bestiame. I buoi venivano condotti all’altare, sgozzati e mangiati. Era l’ecatombe. Quanto più un cittadino era ricco, tanto più numerosi erano i capi sacrificati. Il rito garantiva la protezione degli Dei, assicurava stabilità e prosperità. Non parteciparvi voleva dire infrangere un sacro dovere. Per questo il vegetariano è guardato da molti con sospetto. Ricusare il sacrificio animale e il rituale banchetto di carne rappresenta la trasgressione di un ordine sociale e metafisico custodito nelle pieghe di una memoria collettiva.
E se potessimo scendere in recessi ancor più segreti della mente vi vedremmo agitarsi il magma di oscuri tormenti, il rimorso di quell’atavico peccato che fu appunto l’uccidere, il rompere l’amicizia con la natura. Attraverso il sacrificio noi chiediamo a Dio di essere assolti, giustificati. A pagare però è ancora l’essere più debole, che offriamo come oblazione e costringiamo a morire per noi. L’animale è la vittima vicaria e predestinata di questo rito espiatorio. Astenersi dall’ucciderlo e mangiarlo impedisce la rimozione e il magico transfert della colpa.
Ancora oggi, quando razionalmente avalliamo una tecnologica catena di smontaggio della vita animale e giustifichiamo un’industria della morte che non ha più nulla di nobile o sacro, sono inconsci moventi a guidarci. Con argomenti fisiologici, storici o filosofici, cerchiamo di coprire le radici oscure della nostra violenza. Escludere l’animale dalla dimensione del nostro prossimo e restare indifferenti al suo dolore è un atto colpevole. Non v’è modo di giustificarne moralmente il massacro. Questa è la semplice verità che non vogliamo vedere.
“Spelonca d’assassini” non è solo il Tempio-Mercato di Gerusalemme, col suo commercio di esseri viventi, ma la nostra intera società. Giordano Bruno diceva che il macellaio è figura più vile del boia. Ancor più vili son coloro che non si sporcano le mani di sangue ma ne hanno lorda la coscienza. Quelli che tengono in grembo i loro graziosi cuccioli domestici e li vezzeggiano come bambole ma intanto chiedono al beccaio di sgozzare l’agnello. O quegli individui dal cuore inflessibile, che trovano dolciastro e sentimentale preoccuparsi della sofferenza animale, forti di questa cristiana o stoica capacità di sopportare il dolore degli altri.
Venticinque secoli fa Confucio distillò il succo della morale e ne trasse la regola aurea, secondo cui non bisogna fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi. È una norma semplice e potente, cui si dovrebbe derogare solo in casi estremi. Alcune circostanze, una reale necessità, possono giustificare l’uccidere, pur senza cancellarne la colpa. Ma io dubito che oggi sia necessario mangiare animali. È solo una scelta legata al piacere, all’abitudine o a problemi di identità culturale e psicologica. In altri tempi certe popolazioni non avrebbero potuto sopravvivere senza cibarsi di animali. Tuttavia, costretti a ucciderne uno, chiedevano perdono al suo spirito. Non era solo rispetto della vita. Quei popoli più primitivi – e quindi più evoluti di noi – sapevano che prima di essere animali o uomini siamo anime di questo infinito universo, e insieme condividiamo il peso del soffrire e del morire.
Non si tratta di amare gli animali. Io non amo nessuno per la sua specie, né animali né esseri umani. L’amore è un sentimento elettivo e riservato a poche anime nel corso di una vita. Se non uccido la pacifica mucca, se non tengo il vitellino immobilizzato per mesi in una gabbia angusta quanto una bara, non è per amore ma perché ho pietà di loro. La compassione è universale e dovrebbe essere per l’uomo un istinto. Che se ne faccia una questione morale è segno della nostra caduta. Non sono l’intelligenza, la cultura, la ricchezza o il potere a definire il valore di un uomo. Tutto questo può renderlo meno che umano, se gli manca la compassione. Perciò ai bambini, prima che a leggere, a scrivere o a far di conto, bisognerebbe insegnare la compassione.
Una sola immagine sarebbe molto più efficace di tante parole. Basterebbero quelle orride iconografie dell’inferno cristiano o buddista, dove i dannati vengono scorticati vivi, buttati in pentoloni di olio bollente, torturati secondo le più perverse fantasie della mente umana. Ma al posto dei dannati dovremmo mettere maiali, pecore, cani ecc., e sostituire i volti dei demoni coi nostri volti. Forse capiremmo che dipende da noi fermare quest’orgia di brutalità o lasciare che continui.
Non potremo cancellare il male del mondo. Tutto l’universo porta il peso del dolore: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”. L’uomo può però lenire il dolore del creato. Tutta la creazione, non solo l’uomo, “nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione”. Io credo che gli animali siano uniti a noi in un disegno di salvezza. Come noi, anch’essi aspirano alla vita, alla libertà e all’amore, ognuno secondo la sua natura. Dice Schweitzer: “la mia volontà di vivere limitata si identifica con la volontà di vivere illimitata, nella quale tutte le vite sono una cosa unica. … L’etica del rispetto della vita è l’etica di Gesù estesa a forma cosmica”. Se imparassimo a vedere in uomini e animali il riflesso della nostra anima, di un’unica Anima, sarebbe forse possibile donare un po’ di pace a questa tormentata terra.
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