“Chi ha rinunciato alla sua terra, ha rinunciato anche al suo Dio”
(Fedor Dostoevskij- L’idiota)
Capitolo I
L’era delle ideologie
Modernità madre di tre ideologie
La modernità è stata l’era delle ideologie; la postmodernità dichiara di essere l’epoca del tramonto delle ideologie. La prima affermazione è vera, la seconda è una bugia travestita da verità. L’uomo europeo ed occidentale è stato protagonista delle due grandi rivoluzioni del XVIII secolo, quella americana e poi quella francese, figlie dell’illuminismo, poi ha assistito all’irruzione del nazionalismo nel XIX, ha creduto nelle “magnifiche sorti e progressive “ (T. Mamiani) dell’umanità modellata dal progresso scientifico e tecnico di quel secolo, ha vissuto la Rivoluzione Industriale e poi quella collettivista nella Russia del 1917, ha combattuto due tremende guerre nella prima metà del XX secolo, attraverso le quali ha scoperto la potenza distruttrice delle sue armi, prodotto della conoscenza delle legge fisiche e biologiche della natura.
La seconda parte del XX secolo ha poi cambiato completamente i principi ed i valori in cui erano vissute le generazioni precedenti, e, dopo il 1989 ha visto il tramonto dell’esperienza comunista, a favore o contro la quale si era polarizzato il mondo. Nel corso dei due secoli che possiamo definire “modernità”, per la prima volta nella storia gli uomini si sono divisi sulla base di ideologie, ovvero su visioni della vita, teorizzazioni, rappresentazioni della realtà e della vita, costruzioni concettuali da cui scaturivano amicizie o inimicizie irrevocabili. Nel corso del secolo, un grande giurista di profonda cultura storica e filosofica, Carl Schmitt, tematizzò, nella “Teoria del Partigiano” la nuova figura del nemico assoluto, il nemico ideologico, nei confronti del quale non ci poteva più essere conciliazione, ma solo conflitto.
Le ideologie hanno abbattuto progressivamente il vecchio equilibrio europeo nato dopo la guerra dei Trent’Anni dalla pace di Westfalia del 1648, caratterizzata dal reciproco riconoscimento degli Stati, dalla suddivisione religiosa territoriale “cuius regio, eius religio” (di chi è la regione, di lui sia la religione), dall’alternarsi di pace e guerra, ma sempre nell’ambito di un principio, quello romanistico dello “iustus hostis”, il nemico con cui si combatte, ma entro una cornice di regole e poi, a guerra finita, si riprende un dialogo, pur sulla base di nuovi equilibri. Ciò non è possibile con il nemico ideologico, che deve essere abbattuto, distrutto, ed al quale si tende addirittura a negare lo statuto di uomo.
Le ideologie sono state protagoniste e motori delle rivoluzioni e delle guerre; per esse sono vissuti e morti milioni di uomini, si sono fondati e poi disfatti Stati, sono sorte affinità e contrasti, divenuti prevalenti, nell’animo di grandi masse umane, rispetto alle tradizionali appartenenze nazionali, religiose, imperiali, linguistiche, culturali, civili. Tra le molte ideologie sorte, e poi tramontate, quelle che hanno mobilitato le generazioni sono state il liberalismo (prima teoria politica), il collettivismo socialista e comunista (seconda TP), il nazionalismo, il fascismo (terza TP). Racchiuse entro i duecento anni delle date simbolo del 1789 (Rivoluzione francese) e del 1989 (caduta del muro di Berlino e fine del comunismo sovietico), queste teorie politiche hanno esaltato, orientato, contrapposto gli europei, gli americani e gran parte del mondo.
La post-ideologia della post-modernità
Dopo il 1989, la vulgata generale ha proclamato la fine delle ideologie, a causa del successo del modello economico ed esistenziale liberale anglosassone, e della sconfitta rovinosa di quello che Costanzo Preve, marxista comunitarista eterodosso, definì comunismo storico novecentesco, guidato dalla Russia, divenuta Unione Sovietica, tornata Russia dopo il 1991, anno della dissoluzione dell’URSS.
Si tratta di un’interessata menzogna, giacché si è imposto come unico orizzonte del mondo il liberalismo, nella sua versione liberista, libertaria e libertina, che accredita se stesso come fatto, dato “di natura”, pertanto indiscutibile, irreversibile, finale. Si può affermare che siamo immersi nel post-liberalismo, tanto quanto nella post modernità e nel post industrialismo.
Un’ideologia pervasiva e appiccicosa, la cui forza straordinaria è nella plastica adattabilità ad uomini, tempi e circostanze, cui impone con costanza un unico criterio, quello del materialismo, della ragione economica, dell’utilitarismo, del consumo, attraverso il suo braccio secolare, il mercato. Il liberalismo è riuscito a convincere un’intera generazione che il destino dell’umanità, il senso stesso della vita, se ne esiste uno, è quello di scambiare beni e servizi attraverso uno strumento, il denaro, che controlla attraverso la sua istituzione più importante, il sistema finanziario e bancario.
Unica teoria politica rimasta sulla scena, pur negando vigorosamente il proprio carattere sistemico e destinale, il liberalismo è diventato il legame trasparente, ma robustissimo, che unisce tutte le visioni del mondo, derubricate a modalità pratiche di vita, e tiene in pugno masse enormi sul filo del desiderio compulsivo, che potremmo rappresentare con l’immagine del cane di Pavlov la cui salivazione inizia da quando sente il suono imposto che associa alla somministrazione di cibo. Il liberalismo desta ostilità diffusa, avversione, apprensione, ma riesce ad evitare il coagulo di forze intellettuali, civili, morali e sociali che gli si oppongano. Come uno zelig, muta istantaneamente di aspetto, forma e linguaggio a seconda dell’interlocutore. Esso descrive se stesso come “unicum”, fine della storia, realtà data di per sé, cui non esiste alternativa. Il liberalismo ama presentarsi come evidenza, principio di realtà.
Dunque, non tutte le ideologie, non tutte le teorie politiche – il liberalismo lo è, pur se preferisce rappresentarsi sul terreno economico, e non ideologico – sono tramontate. Una è rimasta, seduta su un trono grande quanto il mondo, e ama definirsi come unica porta aperta sulla società umana. Non ha più una dimensione politica, non rappresenta più una libera scelta, ma diventa una sorta di destino storicamente determinato, l’unico campo in cui si può giocare la partita dell’umanità: l’economia come destino.
La vittoria del liberalismo.
Osserva Robert Musil nel suo grande romanzo – saggio L’uomo senza qualità, “per riuscire a varcare porte aperte, si deve badare al fatto che gli stipiti sono duri: questo principio (…) è semplicemente un postulato del senso di realtà. Ma se c’è il senso di realtà (…) allora deve esistere anche qualcosa che si può chiamare senso di possibilità”.
Tramontato il resto, l’unica idea rimasta in campo, il liberalismo, ha trasformato il mondo in negativo e presenta tratti francamente antiumani. Ha prodotto ingiustizie di portata immensa; ha determinato un mutamento profondissimo nell’animo delle masse, in alleanza con la scienza e la tecnologia che controlla attraverso gli enormi mezzi economici di cui dispone; ha estirpato progressivamente venerande identità religiose, territoriali, nazionali. Ha azzerato consolidate convinzioni morali e civili, differenze di prospettive esistenziali e di comportamento concreto, al fine di dominare un’umanità nuova plasmata sul modello del produttore di merci, del consumatore compulsivo disposto ad indebitarsi per acquistare futili novità, dell’individuo isolato, solitario, desideroso soltanto di soddisfare capricci e pulsioni ribattezzate libertà.
Il liber(al)ismo ha privatizzato la Terra, nel più totale disprezzo per il creato, prima screditando, poi abolendo il concetto di limite, che, dalla Grecia classica in poi, aveva retto la coscienza collettiva dell’uomo europeo. Ha sostituito una serie di principi e valori morali e sociali concreti con un’idea astratta ed insensata di libertà negativa. Ha realizzato le idee di Benjamin Constant sulla “libertà dei moderni” ((Benjamin Constant (1767-1830)Pensatore politico francese “Della libertà degli antichi confrontata con quella dei moderni”)), che è, di fatto, liberazione, emancipazione da qualsiasi vincolo o principio superiore, in opposizione a quella degli antichi, che consisteva nella partecipazione attiva agli affari pubblici con piena capacità di decisione.
Ha infine formulato teoricamente e tradotto in realtà l’egemonia del pensiero tecnico-calcolante – Heidegger ((Martin Heidegger (1889-1976) filosofo tedesco. Forse il maggior pensatore del XX secolo, autore tra l’altro di “Essere e Tempo”)) – e della ragione utilitaria, colonizzando l’immaginario delle ultime tre generazioni in un soffocante conformismo che sta abolendo la stessa dimensione pubblica e politica dell’uomo, eredità che risale al grande pensiero di Aristotele.
L’ideologia che ci domina e pervade ha presa, aspirazioni, pretese e respiro globali: non meno globale, organica e totale deve essere la risposta. Capire l’avversario significa incalzarlo su ogni terreno, opponendo su ogni fronte idee, soluzioni, modelli alternativi.
La grande trasformazione.
Di fronte a quella che, parafrasando Karl Polanyi, possiamo chiamare grande trasformazione, occorre quindi suscitare, animare e radicare un ampio fronte di idee, di uomini e nazioni decisi a fuoruscire dall’orizzonte liberale attraverso la progettazione di idee nuove per un’umanità che non può essere più prigioniera di visioni della storia, della vita, dei rapporti sociali ed economici del passato. Quelle che Jean François Lyotard definì le narrazioni ideologiche della modernità sono vestigia inservibili, ruderi; sorge quindi la necessità di pensarne di nuove dalle macerie di un passato e di un presente su cui non può che gravare un giudizio negativo.
La persistente crisi economica globale, che si pretende di curare con i farmaci e le condotte che l’hanno cagionata, farà sì che il sistema cercherà vie sempre più duri per uscirne, attraverso il controllo tecnologico, quel pensiero che non pensa che si è convertito in “gestell” ((Gestell traduzione “impianto”. Termine introdotto da Heidegger in Essere e tempo per indicare ciò che pervade (es. la Tecnologia).)) impianto, sovrastruttura della post modernità.
Se affermiamo che lo stato presente della civiltà europea ed occidentale è drammaticamente negativo, dobbiamo accogliere una riflessione di Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha creato”. Pertanto, per utilizzare un termine che Thomas Kuhn ha introdotto a proposito del pensiero scientifico dominante, è urgente rovesciare il paradigma, ovvero affrontare, revocare in dubbio ed abbattere le idee forza e l’assiomatica corrente, che è quella del mondo liberale, liberista e libertario, inquietante miscela tra società dello spettacolo e sottocultura del consumatore, all’ombra dell’abolizione della politica.
Capitolo II Verso la quarta teoria politica.
Riprendere il discorso, cambiarne il filo
Fare politica, in tempi liberali, diventa inutile, se non superfluo e privo di senso: non si può, ragionevolmente, essere contro ciò che viene presentato come l’ordine naturale delle cose. La politica è sostituita dalla biopolitica ((Biopolitica. Neologismo inventato da Michel Foucault (1926-1984)–filosofo e storico francese)), mezzo con cui il sistema regola la vita biologica e fisica, attraverso nuovi istituti giuridici, il condizionamento tecnologico, la medicalizzazione di ogni atto e momento dell’esistenza, il controllo della stessa riproduzione, la ridefinizione della famiglia. Destino è lo scambio, la produzione, il consumo, la rapida sostituzione del “materiale umano” (immigrazione, eutanasia, eugenetica mascherata da ricerca del benessere).
Obiettivo di una nuova idea non può che essere quello di fornire un armamentario ideale per tutte le forze che rigettano l’ideologia dianzi descritta, combattere senza distinzioni le varie fazioni che la costituiscono, sostenere le ragioni dell’uscita dalle grandi narrazioni metapolitiche di ieri, proporre un progetto. Aleksandr Dugin, il grande intellettuale russo che ne è ispiratore, chiama “quarta teoria politica” [ d’ora in poi 4TP] il complesso di principi e valori che espone in un libro dallo stesso titolo, non ancora tradotto in italiano.
Per quanto bizzarro possa sembrare, noi siamo convinti che ci sia bisogno più di poeti che di pensatori. La notte è talmente lunga che il concetto stesso di luce è ormai affidato agli artisti, alle intuizioni, a quel drammatico, ma profondo pensiero di Friedrich Hoelderlin, poeta pazzo veggente, secondo cui più si avvicina il peggio, più si avvicina anche ciò che salva.
La seconda e la terza ideologia politica hanno fallito come rivali del liberalismo nell’esprimere in maniera alternativa l’anima della modernità. Dai loro errori si può trarre insegnamento, e recuperare da esse ciò che mantiene valore, e che rischia, nella loro bancarotta, di trasformarsi in detrito anziché in risorsa. Solo retrospettivamente possiamo individuare ciò che avevano in comune, ovvero la strenua opposizione al liberalismo.
La modernità si è caratterizzata per l’irruzione delle masse, la loro presa del potere sociale. Sulle piste tracciate un secolo prima da Tocqueville, è stato lo spagnolo José Ortega y Gasset a ricondurre il malessere del Novecento, che il comunitarista canadese Charles Taylor chiamerà disagio della modernità e Max Weber, da un opposto punto di vista, disincanto del mondo, all’emersione di un soggetto storico del tutto nuovo, l’uomo medio, l’uomo-massa, scimmia dell’individuo. “Massa è tutto ciò che non valuta se stesso, né in bene, né in male, mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo” e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri.” ((Josè Ortega y Gasset (1883-1955) “La ribellione delle masse”))
Manipolato dai totalitarismi, ridotto a consumatore, recettore passivo di messaggi pubblicitari, e prima ancora degradato a merce nel lavoro (le risorse umane), un uomo siffatto è il perfetto “corpo vile” su cui l’ingegneria del consenso esegue i suoi esperimenti, realizza i suoi successi, trasferendo le acquisizioni della psicanalisi alla ferrea logica economica strumentale.
Predrag Matvejevic, intellettuale slavo nato a Mostar, ha inventato la parola democratura, per descrivere la finta democrazia degli oligarchi succeduta al comunismo nell’Europa dell’Est. In larga misura, il termine può essere esteso al nostro mondo eterodiretto.
E’ quindi chiaro contro chi si eleva la protesta della 4TP, e nella negazione costitutiva (non è fascismo, né socialismo, né, evidentemente, liberalismo) c’è un primo significato: quello dell’andare oltre, aprire pagine nuove, scrivere nuovi capitoli della vicenda storica dell’ uomo. Il primo obiettivo conseguito è l’aver identificato il nemico, avvertito tutti sul male che incombe, nella persuasione che il socialcomunismo ed i fascismi hanno fallito nel far guerra al liberalismo e non hanno possibilità alcuna di una rivincita storica.
I pensatori provenienti da oltrecortina, scottati dalla drammatica esperienza del comunismo e dalla successiva violenta imposizione di un liberismo economico e sociale che ha spezzato i fili delle comunità sopravvissuti all’urto collettivista, si sono rivelati i più sensibili alla ricostruzione di un tessuto culturale, ma anche morale, sociale e religioso condiviso. “Nulla di ciò che avevate promesso ci è stato dato, solo jeans, Mc Donald e merda”, sbottò il grande regista russo Nikita Michalkov in un’intervista al Corriere della Sera.
Tanto premesso, il secondo gradino è quello di superare le affermazioni vere ma negative, ed esprimere il nuovo, il diverso, il non-ancora-detto. Ricostruire, ri-pensare, elaborare principi e valori nuovi è operazione complessa, bisognosa di una trama e di un ordito la cui base sia il riconoscimento irrevocabile di un compito storico: uscire dalle ideologie del passato, che hanno dominato il secolo XX, ma traevano le loro radici in un passato ancora più lontano, nel Settecento razionalista per il liberalismo, nell’Ottocento per il socialismo e per i nazionalismi.
Alexsandr Dugin in Russia, Alain De Benoist in Francia, sono alfieri e banditori di questo andare oltre, a partire dalla constatazione che non hanno più alcun senso le vecchie categorie politiche di destra e sinistra, nate con la Rivoluzione Francese, consolidate nella seconda metà dell’Ottocento e naufragate con il comunismo al tramonto del secondo millennio.
Dugin, classe 1962, docente in patria e nel Kazakhstan, uomo di vastissima cultura, in grado di dominare almeno dieci lingue, profondo conoscitore di tutte le correnti del pensiero occidentale ed asiatico, è il primo ad offrire una completa, nuova teorizzazione, per uomini e popoli di questo Millennio che stenta ad uscire dalle strettoie culturali ed ideologiche del tempo precedente.
E’ la Quarta Teoria Politica, e dopo aver esaminato e scartato una dopo l’altra varie ipotesi, ne ha individuato il centro simbolico in un concetto filosofico introdotto da Martin Heidegger in Essere e tempo, l’Esserci, (Dasein) ((Dasein ted. Esserci. Termine fondamentale della filosofia di M. Heidegger)). Ogni grande costruzione teorica che ambisca a trasformare il mondo possiede un suo centro, circolo ermeneutico lo denomina Dugin, che è il principio di interpretazione e l’asse portante dell’idea. Per il liberalismo si tratta dell’individuo, per il comunismo è la classe, per i fascismi lo Stato, e, nella variante nazionalsocialista, la razza.
Il “Dasein”
Dugin è essenzialmente un filosofo. La sua grammatica spirituale, oltreché la vasta preparazione, lo porta a complessità di linguaggio che devono essere chiarite. Per lui “circolo ermeneutico” significa il nucleo forte, fondante di una dottrina. Indicare quale nocciolo dottrinario l’heideggeriano “dasein”, esserci, un concetto filosofico, è insieme un azzardo ed un atto di fiducia negli uomini. Esserci è infatti sinonimo di uomo che sta nel mondo, che ha l’esistenza come specifico modo di essere. Il “Dasein” reinterpretato da Dugin è dunque l’intento di ricentrare idee, storia e realtà sulla complessità e la vita sociale di quell’unico soggetto pensante, l’uomo, che concretamente esiste e vive, qui e adesso, pone domande, “si rende conto”, aspira a interpretare, comprendere, giudicare, modificare, padroneggiare la totalità di ciò che vede e di cui fa esperienza.
L’uomo non è una sorta di creatura celeste, un’anima spirituale che si trova accidentalmente in un corpo e nel mondo come un pesce nell’acquario. Esistere significa per lui stare nel mondo, essere qui, “esser-ci”. Implica dunque un legame necessario con un certo “qui e ora”, un determinato mondo, una precisa situazione storica, sociale, comunitaria ed individuale. Dugin riafferma perciò vigorosamente un umanesimo che è libertà di scelta e progettazione della vita concretamente situata, “gettata”, esistente nel contesto effettivo dello spazio e del tempo, in una realtà data. Nella parola composta Esser-ci, la particella enclitica “ci” simboleggia i due caratteri dell’uomo accolti sull’orma di Heidegger, ovvero la sua esistenza spazio-temporale (essere-qui-ora), e la sua apertura all’Essere, all’infinito, alla trascendenza, alla dimensione spirituale della vita.
Il panorama storico e culturale della 4TP
Le tre grandi ideologie del passato hanno fallito, e le macerie pesano come i resti di un terremoto su gran parte dell’umanità. Ciascuna, dicevamo, si fondava su un’ idea-forza, un “circolo simbolico” o soggetto storico attorno al quale aveva organizzato la rispettiva visione del mondo. Per il comunismo si trattava della classe, gli operai sfruttati la cui missione storica, per Marx, era ribaltare i cosiddetti “rapporti di produzione”, attraverso l’abolizione della proprietà privata, il materialismo storico, l’internazionalismo e la realizzazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Per il fascismo circolo simbolico era lo Stato, espressione del popolo che si fa nazione, e, nella declinazione nazionalsocialista, la razza. Il soggetto del liberalismo è l’individuo, isolato da ogni appartenenza, estraneo alle identità collettive comunitarie, indifferente alla tradizioni, agnostico o disinteressato alle credenze spirituali o religiose.
L’orizzonte culturale della 4TP e del suo ispiratore parte dall’eurasiatismo per abbracciare e ricomporre in una sintesi originale grandi filoni culturali europei come la geopolitica, l’esistenzialismo, il tradizionalismo. Dugin, in particolare, esprime una convinta adesione al cristianesimo ortodosso attraverso un percorso tipicamente russo, che spazia dalla corrente slavofila ((Slavofili. Gruppo di storici e filosofi russi dell’800 impegnati nello sviluppo ed esaltazione della cultura nazionale)) a Fedor Dostojevskyi. Sul piano politico sociale, il baricentro è la certezza che l’uomo debba rimettere “di lato” l’economia ed inventare un sistema in cui al centro sia quel particolare senso dell’uomo definito Dasein, Esserci.
Un uomo concreto, quello della 4TP, al plurale, poliforme, di cui si accettano ed enfatizzano le differenze perché mille sono le civiltà, i modi di vivere e di affrontare l’esistenza, dare senso al vivere comune. Un uomo “situato” nello spazio e nel tempo, radicato, definito da molteplici ruoli e situazioni, non dalla condizione sociale o professionale, piuttosto dalla combinazione dell’appartenenza ad un’etnia ed a una cultura, dalla sua tradizione spirituale e religiosa, dalla sua collocazione spaziale, e non certo dalla vaga qualifica di individuo o cittadino del mondo. Un uomo che, preso atto del suo esistere, del suo “esserci”, si riconosce nella tradizione di cui è erede, una tra le molteplici in un universo di diversità e distinzioni, e a partire da essa, si confronta in condizioni di pari dignità con tutti gli altri. Un uomo, una persona, che, per utilizzare un formula semplice, “vive e veste panni”, e i panni sono quelli della cultura, della religione, della tradizione, del territorio concreto di cui è figlio. Si può affermare senz’altro che l’ethnos, ovvero la consapevole appartenenza ad una comunità, sia un valore centrale della 4TP.
In questo senso, ha una certa pregnanza il paragone con molte idee della Rivoluzione Conservatrice. Come detto, tuttavia, non si può comprendere Dugin senza inserirne il pensiero nell’eurasiatismo, dal cui arsenale concettuale derivano concetti quali “spazio-sviluppo”, “passionarietà”, demòtia”, che tanta importanza hanno nel lessico della 4TP.
L’eurasiatismo. La geopolitica
L’eurasiatismo è un’idea della storia, della geopolitica e della cultura il cui cardine è l’idea di Eurasia, il gigantesco territorio geografico che riunisce due continenti, considera la Russia non una nazione tra le altre, sia pure di grandi dimensioni geografiche e demografiche, ma una vera e propria civiltà a sé stante, distinta dall’Europa, di cui pure costituisce la metà e dall’Asia, cui appartiene la maggior parte del suo territorio. La Russia si fonda storicamente su due istituzioni di potere: lo zar, che, nella tradizione è tanto il basileus bizantino che il khan mongolo, ripresentato in chiave moderna nel modello del potere concentrato nelle mani e nel carisma del Capo (Stalin stesso, da un quindicennio Vladimir Putin); ed il popolo-nazione, il narodnost.
Non è senza significato che lo stesso vocabolo populismo, oggi circondato dall’interessato discredito da parte delle caste oligarchiche che si sono impadronite del potere in Occidente, nasca in Russia, nell’Ottocento, con il movimento dei narodniki. Nell’esprimere un giudizio negativo sulle società liberali europee, che consideravano decadenti, i populisti russi, tra i quali Alexsandr Herzen, ritenevano che la Russia, diversamente da quelle, dovesse percorrere un proprio sviluppo autonomo. Essi si consideravano gli interpreti dell’anima popolare, condannavano la servitù della gleba ma non l’autocrazia, alla quale affidavano il compito di attuare riforme sociali, nel mantenimento dell’obscina, la primitiva comunità rurale russa, L’obscina era una sopravvivenza della primitiva agricoltura nomade in un immenso territorio, si basava sulla rotazione dei terreni e sull’uso comune dei beni (legnatico, pascolo, risorse idriche).
Un popolo nazione, quello russo, che si forma nel territorio euroasiatico durante la lunga stagione mongola e turanica, caratterizzandosi poi in senso inclusivo come grande spazio imperiale di convivenza multietnica. In questa chiave di lettura, è evidente l’estraneità ai valori democratico-liberali dell’Europa centrale ed occidentale. La ragione illuminista non ha scalfito l’animo russo nonostante la profonda influenza francese sulle élite. Se Pietro il Grande aveva imposto l’europeizzazione attraverso la fondazione di San Pietroburgo, affidata nell’architettura e nel gusto ad artisti ed artefici europei, specie italiani, la Russia profonda non è mai diventata europea. La sua anima resta sospesa tra le steppe ed i ghiacci asiatici che furono di Tamerlano e dell’Orda d’Oro e l’ovest cui la richiamano il cristianesimo ortodosso (Mosca, dopo Bisanzio, è la terza Roma) e la sua prima etnogenesi medioevale attorno a Kiev.
L’eurasiatismo, nel drammatico XX secolo vissuto dalla Russia, ha espresso eccellenze nella linguistica e nella filologia (il Circolo di Praga di Roman Jakobson e Nikolaj Trubeckoj), nella geografia politica, nella scienza e nella teologia con il grande martire Pavel Florensky, nella filosofia politica con Nikolaj Alexeiev e Piotr Savitzky, nel diritto e nell’opera di un importante storico della cultura ed etnografo come Lev Gumilev. Quest’ultimo, figlio del poeta NIkolaj Gumilev e di Anna Achmatova, regina della poesia russa, fu salvato dalla fucilazione dalla madre, che dovette ritrattare le sue posizioni politiche antistaliniste e fu costretta a scrivere articoli di forte sostegno all’autocrate georgiano. Elementi di eurasiatismo possono essere rinvenuti anche nell’opera di un filosofo e scrittore cristiano come Nikolaj Berdjaev.
Dopo la fine dell’URSS, l’eurasiatismo, che attraversò come un fiume carsico il settantennio sovietico, tornò d’attualità nelle idee politiche del nazionalbolscevismo di Eduard Limonov e dello stesso Dugin nella sua stagione giovanile. Oggi è ritenuto l’elemento unificante degli ambienti “rossobruni” ed uno degli elementi ispiratori del partito di potere, Russia Unita. Il neo-eurasiatismo si candida ora ad essere l’ossatura della 4TP. Le sue caratteristiche possono essere riassunte in un vigoroso conservatorismo “attivo” e decisionista di stampo schmittiano, avverso ai valori occidentali di progresso, democrazia, mercato, scientismo (“pensiero che non pensa”). ((Pensiero che non pensa. Espressione di Heidegger per designare la conoscenza tecnica e tecnologica))
Geopolitica, Eurasia.
L’egemonia del pensiero e delle prassi anglosassoni possono essere quindi affrontati e battuti solo opponendole il dominio territoriale eurasiatico centrato sulla Russia, unica potenza in grado di riportare al centro delle comunità i valori spirituali, la famiglia, la gerarchia contro la modernizzazione occidentale, colonialista, sottilmente totalitaria e, in definitiva antropologicamente razzista. Torna sulla scena la grande intuizione di Arthur Moeller Van Den Bruck, fautore di un’intesa russo-tedesca, con la sua definizione di democrazia come “partecipazione del popolo al proprio destino” ((Arthur Moeller Van den Bruck (1876-1925) “Il Terzo Reich”.)).
L’eurasiatismo, cerca ora sponde ed alleati in numerosi filoni e frange del pensiero non conforme europeo, a partire dall’intesa con esponenti della cultura francese come Alain Soral e Alain De Benoist, la riproposizione di temi cari alla Rivoluzione Conservatrice tedesca, la ripresa di un federalismo alla Althusius o alla Gianfranco Miglio, da inserire e ricomporre ad unità intorno ad una rinnovata concezione di impero. L’idea imperiale “imperium” ha caratterizzato non solo il mondo asiatico, ma anche lunghe e feconde stagioni dell’anima europea, dal medioevo ghibellino sino alla definitiva sconfitta del 1918 di fronte ai nazionalismi colonialisti ed agli Stati Uniti espressione della nascente egemonia della finanza.
Europa
L’Europa non appartiene allo spazio eurasiatico. La sua civiltà, immensa, stratificata, di lungo periodo, legata a piccoli spazi che hanno generato enormi diversità, deve restare indipendente e libera. Il suo dramma, dopo le due guerre civili intraeuropee della prima metà del secolo XX, è la difficoltà, e, perché non dirlo, la mancanza di forza e volontà di fronteggiare l’egemonia atlantica degli Stati Uniti, che le hanno imposto un’alleanza ormai contro logica e natura, ed ancor più un soffocante vassallaggio culturale. Con l’Eurasia, e con ogni altra civiltà interessata, condivide il bisogno storico di liberarsi da un’egemonia mortifera. Abbiamo lo stesso nemico, ed è un nemico assoluto, che, a suo modo, non fa prigionieri, ma solo servi: l’alta finanza, il mondialismo che omologa lingue, stili di vita, modelli. Non sono necessariamente americani, i super padroni, ma, eredi dell’impero britannico, della Compagnia delle Indie, in unione con le grandi famiglie del denaro hanno negli USA centrali e direzioni strategiche. Conoscono bene, e sperimentano ogni giorno, almeno dal 1898, guerra delle Filippine, Usa contro Spagna, il modo di distruggere gli avversari ed uccidere l’anima dei popoli.
L’euroasiatismo si propone, attraverso la 4TP, di fornire un arsenale di idee ed una sperimentata influenza territoriale e ideale volgendosi ad Ovest, a quelle forze sparse europee per suscitare nei popoli del nostro continente, oltreché in quelli asiatici già in cammino, un nuovo spirito, un singolare sentimento che si fa azione, descritto da Lev Gumilev e chiamato passionarietà.
Passionarietà. Luogo-Sviluppo
Sulle piste tracciate da Piotr Savitzky ((Piotr Savitzky (1895-1968) Filosofo e storico russo, esponente dell’eurasiatismo)), Gumilev, nella sua teoria dell’etnogenesi, ovvero della nascita del popolo russo tra il XIII secolo (invasione mongola) ed il XVI (Ivan il Terribile) ha formulato concetti come ethnos, superethnos e, appunto, passionarietà. La passionarietà è il fatto inspiegabile in termini razionali che, in determinate circostanze, i popoli o gli individui riescano a compiere atti o imprese che oltrepassano l’orizzonte della vita quotidiana. Si tratta di una sorta di energia misteriosa che si forma nell’anima collettiva e poi erompe, si sprigiona con pienezza come lava dal cono di un vulcano ed induce popoli e tribù a muoversi. Esistono, a detta di Gumilev, veri e propri cicli storici di passionarietà ed è possibile predirli. Lo spirito dei popoli, che, giocando sulle parole, potremmo chiamare l’ethos dell’ethnos, si trasforma in superethnos, dà forma, fonda, istituisce la nazione, lo Stato o l’impero. Giunta al suo acme, la passionarietà tende a scemare, trasformandosi in “autunno d’oro” della civiltà. Chiara è la vicinanza a idee espresse da personalità come G.B. Vico, Mircea Eliade, Oswald Spengler e Arnold Toynbee.
Lo stesso Piotr Savitzky, a lungo sodale e corrispondente di Gumilev, ha elaborato un’altra idea chiave cui anche la 4TP si ispira: il principio di “luogo-sviluppo” (mestorazvitiye in russo). La scoperta di Savitzky è che ciascun luogo ha in sé l’essenza di ciò che vi è avvenuto e vi si è sviluppato o vi si svilupperà nell’avvenire: lo spazio come destino. E’ la declinazione spirituale delle intuizioni che i grandi della geopolitica, da Ratzen a Kjellen, svilupparono nell’ambito degli interessi di dominio delle potenze: lo spazio “decide” storia e destino di chi lo abita. Non è senza significato, in termini metastorici, che la più diffusa teoria geopolitica, elaborata dal britannico Halford Mackinder faccia riferimento proprio all’Eurasia come “heartland”, il cuore geopolitico e geostrategico della terra, perno degli equilibri mondiali, unità organica sorta dall’osmosi tra i mondi russo ortodosso e turanico mussulmano al centro del continente asiatico. Il controllo dell’Eurasia, immensa placca continentale, assicura il potere a livello mondiale, in contrapposizione alle forze oceaniche talassocratiche. Mackinder espresse la convinzione che potessero esistere due sole politiche internazionali, una di mare e l’altra di terra.
Terra e mare
Tale concetto geopolitico ha il suo omologo nell’idea europea continentale, intuita da Karl Haushofer e soprattutto da Carl Schmitt ((Carl Schmitt (1888-1965) Giurista e pensatore politico tedesco, considerato il maestro del realismo politico del XX secolo)) nel suo “Nomos della Terra”, che contrappone, anche dal punto di vista ideale, le potenze oceaniche anglosassoni a quelle telluriche (Russia, Germania), con sullo sfondo la possibile alleanza con l’immensità indiana e cinese.
Le potenze di mare sono la culla dell’universo liberale e Dugin, d’accordo con Schmitt, ne denuncia l’operazione di lungo periodo volta a sovraordinare la società, ergo l’economia, agli Stati, sino all’estirpazione definitiva di ogni dimensione pubblica. Già l’illuminista Voltaire riteneva preferibili i legami contrattuali a quelli comunitari; da parte sua, Montesquieu teorizzò il dolce commercio, antidoto alle guerre, e nessuna opinione risultò più errata alla prova dei fatti. Al contrario, porre l’individuo, i suoi interessi ed i suoi desideri al di sopra di tutto significa “degradarlo appositamente in zone di immoralità e di violenza”, ((Martin Heidegger “Essere e tempo”)) ridurlo a feticcio primitivo armato di tecnologia.
Dugin si occupa delle teorie tedesche sul “lebensraum”, correggendo il significato loro attribuito: non spazio vitale, teso alla conquista ed alla sopraffazione dell’Altro, ma “luogo della vita”, in cui si svolge al meglio la vicenda concreta dei popoli che vi sono insediati e per ciò stesso condividono una certa idea di sé. In quel senso, la 4TP si distingue nettamente anche dal principio, anch’esso germanico, di “blut und boden”, sangue e suolo: ben più suolo che sangue, giacché gli eurasiatisti, e Dugin con loro, sono inclusivi, imperiali, eredi di popoli “mobili”, che non si riconoscono in esclusivismi o suprematismi etnici. La 4TP condivide irrevocabilmente tali convinzioni, ed anche in ciò sta la sua novità, il suo essere un’altra cosa rispetto ai tramontati etnonazionalismi del passato.
La modernità. Economia come destino
L’eredità lasciata della modernità sono le macerie di tre grandi teorie politiche. Il comunismo ed i fascismi, secondo la 4TP si sono poste in competizione per esprimere al meglio lo spirito della modernità. Venute meno, l’una al termine di una guerra drammatica, l’altra esaurita nei suoi fallimenti fatti di burocrazia, violenza e proibizioni, non devono essere del tutto abbandonate, ma ripensate, cogliendo gli aspetti di verità che hanno valore di per sé. Si coglie una contiguità con il pensiero di marxisti comunitaristi come Costanzo Preve, con l’idea del fascismo-giacimento di un Pino Rauti, nonché una sorprendente analogia con una vecchia definizione di Franco Freda, per il quale fascismo e nazionalsocialismo furono “l’estate di San Martino della modernità”. ((Franco G. Freda (1941-) “L’albero e le radici”))
Sbrigativamente, potremmo assumere il punto di vista del volume Rinascita di un impero, secondo cui occorre vedere Marx da destra e leggere Julius Evola da sinistra. La modernità coincide con la fine del sacro, chiamata da Nietzsche “morte di Dio” e da Max Weber “disincanto del mondo”. La postmodernità in cui siamo immersi va oltre. Non esprime più aperta contrapposizione ai valori religiosi e spirituali, non è più necessario, semplicemente essi diventano indifferenti, non appartengono più alla storia e neanche alla cronaca, inverando l’orgogliosa pretesa di un biologo come il Laplace: “Dio è un’ipotesi che non ho preso in considerazione”. Oppure, lasciano il campo alle elucubrazioni cosmologiche dei fisici teorici, alla Dawkins o alla Hawking, che riducono l’universo ad una combinazione di geni o alla casualità. Ciò che conta è solo la dimensione economica, la sua gestione attraverso il mercato e la finanza, la sua giustificazione come fatto naturale.
Già negli anni Novanta, Alain De Benoist denunciò l’inservibilità delle vecchie categorie di destra e sinistra, preferendo i termini centro e periferia. Altri hanno applicato altre coppie oppositive, quali Nord- Sud, Alto-Basso, ma ciò che conta, e che la 4TP accoglie senz’altro, è che esiste un centro corrispondente alle varie fazioni (politiche, economiche, culturali) del pensiero dominante, di cui la dimensione economica è architrave e giustificazione, opposto ad una periferia costituita dalla maggioranza dei popoli e dall’insieme eterogeneo e sconnesso delle forze che si oppongono a quella egemone. La 4TP si candida ad interpretare le istanze di queste ultime, offrendo un completo sistema alternativo di principi e valori. Il primo passo è il rilancio offensivo dei valori delle tradizioni di ciascun popolo. Dugin, peraltro, usa il termine Tradizione nel senso formulato da René Guénon e Julius Evola, ovvero come adesione ad un insieme di principi metafisici comune ad ogni vero costume spirituale, condiviso al di là delle distinzioni delle pratiche religiose, dei culti, dei differenti approcci alla trascendenza di ciascuna cultura.
Roberto Pecchioli (1 — continua)
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