“Chi ha rinunciato alla sua terra, ha rinunciato anche al suo Dio”
(Fedor Dostoevskij- L’idiota)
Capitolo V
Il mondo delle idee
Conservatori?
Il conservatore, negando la positività ed irreversibilità dei fenomeni, in fin dei conti, non fa altro che dire no a ciò che vede e lo circonda, nel nome di una radicata convinzione avversa al mutamento. Perché la vita, infine, non è una lavatrice.
Pure, persiste una radicale distinzione tra l’atteggiamento conservatore e quello tradizionalista. Il conservatore constata delle criticità, rileva degli errori, verifica una discesa, ma, quando non si limita a deprecare, il suo impegno è volto a contenere, rimandare il peggio, richiamare, ammonire. Il rappresentante più tipico della categoria è forse Edmund Burke ((Edmund Burke (1729-1797) Uomo politico inglese. “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia”.)) il liberale inglese che insorse contro la Rivoluzione francese senza attaccarne sino in fondo le ragioni profonde. Il tradizionalista ha una visione del mondo assai diversa: egli afferma che esiste un processo oggettivo di degradazione del mondo, il cui picco è stato la modernità.
La sua riflessione si spinge sino al cuore dei fatti: perché principi come gerarchia, ordine morale, Dio, il sacro, da un certo momento si sono trasformati nel loro opposto? Il mondo di ieri, caro al conservatore, era davvero così idilliaco e degno di essere mantenuto? La 4TP, rispondendo al quesito, fa proprio l’imperativo di Moeller Van Den Bruck: “I primi conservatori hanno tentato di fermare la rivoluzione, noi dobbiamo guidarla”. L’attualità è repellente, ma dobbiamo viverla, passarci attraverso fino a trascinarla verso la sua stessa fine. Non è diverso il concetto evoliano di Cavalcare la Tigre, una volta esplorate le rovine della modernità contro cui insorgere. E’ un cammino impervio, insidioso, lungo una superficie così lucida da essere accecante, una robusta lastra di ghiaccio da attraversare e contemporaneamente rompere senza annegare, un acrobatico “cammino del cinabro”. Come ha dimostrato l’arte sconnessa, scentrata della modernità, il ghiaccio ha prodotto nichilismo, tendenze suicide (surrealismo, dadaismo), peraltro già intuite da Dostoevskij nel tragico personaggio di Kirillov nei Demoni.
Un’ antropologia del tempo.
Il Dasein, l’ Esserci, essere-qui-ora, richiede di definire una dimensione del tempo, oltreché dello spazio. Siamo situati, gettati in un’epoca e non in un’altra. Dugin distingue tre fasi, una è l’immediato, relativo al presente (c’è-non c’è). La seconda, che chiama il documentario, attiene al passato (c’era-non c’era), mentre la terza, molto interessante, è il “probabilistico”: ci sarà, non ci sarà), riferito al futuro. Un’idea molto particolare, poiché il futuro non c’è ancora, dunque manca di “essere”, e di esso non è dato sapere nulla, se non in termini di probabilità.
L’idea di tempo deve essere indagata attraverso il metodo della fenomenologia di Husserl, che proponeva un paragone con la musica: la nota che ascoltiamo (il presente) non è “la musica”, che è qualcosa di complessivo e diverso, formata com’è dalla sequenza delle note passate che svaniscono una ad una.
“Il [loro] risuonare persiste nella mia coscienza e dà alla musica il suo senso estetico. Il passato è presente nel presente”. Il futuro, pertanto, è “risonanza del presente”, lo viviamo già adesso, “mentre suoniamo le note della melodia della vita”((E. Husserl. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica.)).
Evidente è la lontananza da ogni materialismo di considerazioni siffatte, insieme con un’idea organica, olistica, del tutto, unita ad una concretezza che radica l’Esserci nel tempo, oltreché nello spazio. IL futuro, per questa via, diventa una funzione sociale. Solo l’umano concepisce il futuro, non gli oggetti, a cominciare dalle macchine che ci stanno sostituendo persino nel pensare. E’ il tempo a renderci ciò che siamo, tanto da diventare la massima identità dell’uomo. E’ qui ben netta la contrapposizione al liberalismo americanizzante e globale, che pretende di unificare lo spazio ed azzerare il tempo, concepito come una sequenza puntiforme di attimi del presente, simili ai singoli colpi di pennello dei dipinti pointillistes, immediatamente superati, fagocitati, annullati dall’attimo successivo, senza produrre l’immagine generale e l’effetto del quadro.
Non esiste una irreversibilità o unidirezionalità del tempo storico, né c’è un’ipotetica linea che avanza verso l’infinito. La 4TP vive nella post modernità, è una teoria antimoderna, e fa sua una singolare intuizione dell’antropologo francese Bruno Latour, non siamo mai stati contemporanei, espressa a proposito di una sua convinzione, secondo cui i popoli antichi, a differenza nostra, non facevano distinzione tra società “storica” e mondo della natura. La globalizzazione non equivale solo alla fine della storia, ma anche alla morte del tempo. Universalismo, distopia del “futuro comune” significa che non sopravvivrà alcuna storia particolare, con la logica abolizione del futuro e della storia, sino a cristallizzare il tutto in un presente ossificato. Questo cancella la soggettività trascendentale, ovvero la tensione della persona viva, esistente, al pensiero complesso, alla domande di senso, al riconoscimento reciproco di Sé e dell’Altro. Fuori dall’uomo, fuori dall’Esserci, in una confusa trans-individualità. Il baccano, la mescolanza, la baraonda di una discoteca è, un’ottima metafora: vi si agitano figure scomposte, incerte, di cui è difficile distinguere il sesso, dall’apparenza e dalle mosse indefinite, poiché non ci si muove, ma si viene mossi dall’onda, il tutto tra luci accecanti o oscurità improvvise, al ritmo di musiche di cui non si percepisce precisamente l’inizio e la fine.
Tempo e spazio geografico
Non vi è, tuttavia, nella 4TP, un’unica concezione del tempo. Dugin ne elenca quattro: esiste un tempo circolare, basato sull’eterno ritorno dell’uguale, e qui chiaro è il debito nei confronti di Nietzsche; c’è una concezione tradizionale, in cui è il modello del passato a disegnare il presente ed a ipotecare il futuro; c’è un tempo messianico, la cui vita è l’attesa del futuro ed infine un tempo materiale, lineare, costruito sul mondo fisico ed interrotto dalla morte del soggetto che misura. Analogamente, ogni società ha una propria concezione della storia, talché non si può immaginare, tantomeno volere un futuro identico per l’umanità. Ad un mondo eterogeneo, ricchezza e meraviglia della nostra specie, non si può rispondere con l’identico, l’omologato, con la livella dei materialismi comunisti o liberali. Se c’è un centro di gravità permanente, per usare un sintagma tratto dalla musica di Franco Battiato, quello è la geografia. Ogni popolo, ciascuna etnia e cultura condivide con tutte le altre una stretta relazione con lo spazio fisico territoriale in cui si è manifestata e vive, declinata in altrettante forme. Lì, e solo lì, si dispiega tutta la forza e la potenzialità dell’esserci, solo in quel certo spazio-sviluppo persone e popolazioni nuotano come pesci nell’acqua.
Di qui l’assoluta contrarietà all’idea astratta di uguaglianza, che, nella geopolitica si converte inevitabilmente in dominio di qualcuno su qualcun altro, imperialismo, unipolarismo. La civiltà occidentale risulta macchiata dalla volontà faustiana di porsi al di sopra delle altre, di stilare graduatorie, di considerarsi universalmente valida, di giudicare tutto e tutti sulla base di un imbarazzante criterio: avanti, o indietro, rispetto al proprio modello, postulato come insuperabile.
Eppure, scienze umane fondate proprio da occidentali, come l’antropologia, la sociologia, la stessa analisi strutturalista hanno confutato tale convincimento che, con Lévi-Bruhl ((Lucien Lévi-Bruhl (1857-1939). Antropologo francese. “La morale e la scienza dei costumi.)) era arrivato a teorizzare una supposta mentalità primitiva, definendo “prelogiche” le modalità di pensiero e di stabilire relazioni tra le raffigurazioni della realtà formulate da popoli mai entrati in contatto con gli uomini “civilizzati”. Lo stesso illuminismo, in verità, aveva aperto la via ad un pensiero che screditava qualunque rappresentazione della realtà non basata sull’imperio della ragione, intesa come fiducia assoluta e totalitaria nei sensi, nel tangibile, nel commensurabile.
In qualche misura paranoico ed insieme narcisista, l’Occidente non accetta di considerare se stesso come un fenomeno importante, sì, ma in fondo locale, esattamente come ogni altra civiltà apparsa nel tempo e nello spazio sulla scena planetaria. Il nostro non è un universo, ma un pluri-verso, ed in tal senso, per la 4TP, la globalizzazione è la morte del tempo in quanto si considera fine della storia. Non sa accettare la possibilità della guerra, che si alternerà e susseguirà alla pace sinché l’uomo esisterà.
Imperium
Il concetto di Impero è estremamente importante, nella costruzione culturale della 4TP. Abbiamo intitolato il paragrafo imperium, in latino, per esprimerne la forza antica nonché per rilevare che si tratta di un’idea che ha accompagnato, attraversato dall’interno numerose civiltà. Roma tendeva ad integrare, a fornire un diritto, uno “ius” pubblico e privato, ma era estremamente libera nel riconoscere le religioni, le usanze, i modi di vita dei popoli che assoggettava. L’impero, in Europa, passò poi al mondo franco e germanico, chiudendo la sua storia quasi millenaria solo al tempo di Napoleone, l’esportatore della rivoluzione borghese e del suo nuovo diritto, il codice che porta il suo nome, ma insieme portatore di un’altra concezione di impero. Nell’Europa sudorientale, impero fu l’oriente di Costantinopoli, la seconda Roma del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, e poi, caduta Bisanzio tra trame politiche e sofismi culturali, si costituì in impero il mondo turco ottomano. Ad oriente, la Russia, che chiamò Cesare (Zar) il suo imperatore e si volle considerare terza Roma. L’impero non è necessariamente autocratico o dispotico (in questo dissentiamo da Von Wittfogel ((Karl A. Von Wittfogel (1896-1988) sociologo tedesco. E’ noto per la sua teoria idraulica ne “Il dispotismo asiatico”.)) e dalla sua “teoria idraulica ”, ma ha due caratteristiche in assenze delle quali tale non è: il grande spazio, un territorio vasto e necessariamente composito, e il convincimento di essere investito di una missione.
Per quanto concerne la prima caratteristica, è evidente che l’anima russa ed eurasiatica vive il suo rapporto con lo spazio territoriale in maniera assai differente dagli europei: là ci sono gli spazi immensi, una sorta di infinito sulla Terra, qui in un pezzetto di Europa, a sua volta una propaggine peninsulare dell’enorme massa continentale asiatica si sono accalcati popoli diversissimi, si parlano decine di lingue, si praticano varianti complesse di distinte religioni, si hanno credenze, abitudini, stili di vita, condizioni climatiche di ogni tipo. Ciononostante, come gli alberi hanno le radici e gli animali un habitat, gli uomini hanno bisogno di una casa, di un paesaggio da amare, di un panorama che si imprime nel cuore e nella retina, e diventa, irrevocabilmente, il proprio. A differenza dei nuovi nomadi dell’iperclasse dominante a loro agio nei non luoghi ((Nonluogo. Neologismo coniato dall’antropologo francese Marc Augé(1935-) per designare quegli spazi comuni caratterizzati dall’uniformità. es. aeroporti, svincoli autostradali.)) e nelle megalopoli della presente civilizzazione, gran parte degli esseri umani ha bisogno di un luogo dell’anima, di una Patria. Quella Patria è anche un territorio, un luogo fisico, e la 4TP lo afferma con assoluta convinzione. Dugin cita quasi con devozione un articolo apparso nel 1921, di Nikolay Ustrialov, sostenitore dei Bianchi nella guerra civile dei primi anni Venti, esule e poi ucciso nelle purghe staliniste, colui che portò in Russia il termine nazional-bolscevismo, mutuato dal tedesco Ernst Niekisch, altra figura “di frontiera” tra rivoluzione conservatrice e comunismo “nazionale”: “Si sbaglia di grosso chi ritiene il territorio un elemento morto dello Stato, indifferente alla sua anima. (…) Proprio il territorio è la parte più essenziale e preziosa dell’anima statale, nonostante il suo apparente carattere grossolanamente fisico”.
Parole da rimeditare, nell’epoca del virtuale, del tempo reale, della dematerializzazione perfino del denaro, delle decisioni affidate ai computer, di una tecnologia che azzera lo spazio, dirigendo tutti da “remoto”. Occorre un ritorno al reale, come proclamava il filosofo contadino Gustave Thibon, a quella terra patria che il giovanissimo comandante vandeano Charette descrisse, di fronte ai tronfi intellettuali giacobini, come quella cosa che “noi sentiamo sotto i nostri piedi”.
Un impero ha una missione che trascende tempo e spazio, e oltrepassa gli uomini e le donne che la incarnano. Per i Romani e l’orda di Gengis Khan si trattò di una missione civile, per i Persiani culturale, mentre il Califfato, la stessa Russia, Bisanzio e in larga misura l’Austria-Ungheria espressero una tensione religiosa. Più di recente, sono sorti imperi ideologici, come l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America. Differente fu la natura dell’Impero britannico, la cui missione è rimasta riservata per alcuni secoli, nota solo a cerchie d’élite quali la Royal Society, ed è stata rivelata da Aldous Huxley ((Aldous Huxley.(1894-1963) scrittore inglese. Fratello di Julian, scienziato noto per le sue posizioni eugenetiche, scrisse il romanzo distopico Il mondo nuovo. )): impero della mente. Attraverso istituzioni specifiche, la più nota delle quali è il famigerato Tavistock Institute, la “gentry” inglese ha costruito una forma mentis atta a perpetuare il suo dominio, un senso comune internazionale favorevole al libero commercio. Gli Stati Uniti hanno ereditato, perfezionandolo con le nuove scienze e con le tecniche di condizionamento, il metodo dei loro antichi genitori, ed ora sono pressoché proprietari del pensiero e delle opinioni di centinaia di milioni di uomini e donne.
L’Unione Europea è definita, suggestivamente da Dugin l’Impero incerto, una specie di Amleto della storia e della geopolitica, in quanto non sa decidere se ha una sua idea del mondo e di se stessa, se il suo scopo è meramente economico, un ‘area di libero scambio depoliticizzata e governata di fatto da banchieri e da proconsoli dell’impero ideologico liberale americano, ovvero se l’unione è solo una risposta contingente all’esigenza dei grandi spazi.
La Russia, al contrario, può e deve recuperare una sua dimensione imperiale, contrapponendosi in maniera decisa al millenarismo americano liberalcapitalista, recuperando il suo storico rapporto ad Est con i popoli turanici che le sono stati sottratti dopo la tempesta di fine comunismo e con l’estremo oriente cinese che volge la testa verso il mondo per la prima volta in quasi tre millenni di presenza storica; a sud con il Vicino Oriente, culla delle civiltà e gran serbatoio di combustibili fossili; infine, ed è quanto più qui interessa, volgendo lo sguardo ad Ovest, al suo “limes” europeo.
In questi anni, e con più vigore dal 2013 e dallo storico discorso di Valdai di Vladimir Putin, in cui ha attaccato l’unipolarismo occidentale ed americano tanto sul versante politico economico che su quello, delicatissimo, culturale e valoriale, la Russia e la “russitudine” ortodossa si candidano a punto di riferimento per milioni di europei scontenti, esasperati dalle derive oligarchiche economiche e finanziarie, mortificati dal modello massificante americano, impoveriti dalla prassi sociale liberale, sconcertati da inedite idee sulla famiglia, la religione, la sessualità, i sedicenti nuovi diritti civili che disegnano una antropologia negativa, attraverso violente campagne fornite di inesauribili risorse economiche e mediatiche e legislazioni che destano in molti autentico orrore.
La Russia, il mondo slavo ortodosso, l’Eurasia, possono essere alleati di una parte consistente dell’Europa, come sperava la Rivoluzione Conservatrice negli anni tra le due guerre, in una guerra insieme morale, civile, di modelli economici ed esistenziali. Questo è essere “imperium”, e passerà, necessariamente, per una diversa definizione degli Stati nazionali, della stessa Unione Europea, in una prospettiva non federale, ma confederale: unire libere diversità che aspirano a rimanere tali e, ove necessario, a ritornare del tutto autonome ed indipendenti. La sfida è, come accennato, promuovere un fronte di diversi, se vogliamo un fronte inter-nazionale alternativo all’imperialismo mondialista, unipolare, esportatore forzoso dell’inganno universalista costruito attorno alla mistica dei diritti umani, la cui prima enunciazione avvenne al tempo della Rivoluzione francese, che sacralizzò la nazione e proclamò i Diritti dell’uomo e del cittadino, il 26 agosto del 1789, dando inizio ad una stagione di massacri tra gli oppositori refrattari, ma, per la prima volta nella storia, nel segno del Bene, del Giusto e del Vero. Nel 1948, a guerra finita, si replicò, stavolta sotto l’egida dell’organizzazione più mondialista ed unipolare della storia, l’ONU, con una nuova dichiarazione, non a caso sottoscritta a Parigi, che parla di diritti “universali”. Non impero, ma dominio totalitario; per il nostro bene, che asseriscono di conoscere assai meglio dei popoli, delle nazioni, delle religioni, della saggezza che viene dai millenni.
Un modello soffocante.
Il mondo non deve uniformarsi ad un unico modello geopolitico. Nessuno Stato, nessun Impero può esprimere controllo e dominio su ogni spazio dell’esistenza. Non sono ammissibili gerarchie tra società e modelli culturali diversi. La 4TP, forte di queste convinzioni, si propone, nell’ambito della scelta eurasiatica, di recuperare gli spazi di ogni cultura, la pluralità delle tradizioni, ristabilire il legame spezzato con la propria terra, ponendo fine alla sradicamento generalizzato perseguito dal mondialismo e dall’alta finanza, anche attraverso lo spostamento forzato di imponenti masse umane. Il vero nemico di ogni popolo, quindi dell’umanità tutta, è chi vuol distruggere la sua anima, estirparne le tradizioni civiche e religiose, recidere ogni residuo identitario.
Martin Heidegger chiamò “perdita di mondo” il progetto generale di chi trasforma il mondo stabilendo condizioni esistenziali precarie, flessibili, nomadi, liquide, nel lessico sociologico di Zygmunt Bauman ((Zygmunt Bauman. (1925-) sociologo polacco americano. “Modernità liquida”.)). Angoscia, paura, spaesamento avvolgono milioni, miliardi di esseri umani. Attraverso la globalizzazione e la delocalizzazione industriale, viene superata la divisione produttiva del lavoro. Si dissolve la stessa identità economica dei paesi, i loro specifici saperi, l’ antica cultura materiale.
La risposta deve essere globale, una nuova teoria generale della vita deve esprimere un proprio modello socio-economico. La 4TP, nel respingere la demonia dell’apparato economico di mercato, propone un modello misto in cui le economie che si evolvono a un ritmo differente possano, in funzione delle tradizioni locali, combinare il mercato con altre forme di artigianato, di cooperativismo, di comunitarismo solidale, non collettivista, né deresponsabilizzato.
La parola chiave è autonomia: delle persone, dei corpi intermedi, delle comunità locali, delle corporazioni professionali, degli enti territoriali. Peraltro, anche il conservatorismo americano classico, da Calhoun agli agrari, sino a Russell Kirk ed a Santayana (“chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo”) nella sua forma fusionista ha sempre insistito sulla necessità di diffondere l’autonomia personale ed economica e la proprietà al massimo numero di persone, al fine di creare uno spirito civico e dilatare il principio di responsabilità. In Russia, alfiere di tale visione fu Piotr Stolypin ((Piotr Stolypin (1862-1911) uomo politico russo. Primo ministro dopo la prima Rivoluzione (1905), è considerato il maggiore riferimento di V. Putin.)), primo ministro zarista ucciso da un attivista ebreo, probabilmente legato ai fuorusciti comunisti, la cui riforma agraria, tesa a diffondere la proprietà contadina per favorire la formazione di un ceto medio, ed i cui progetti di rafforzamento e modernizzazione del debole sistema industriale furono interrotti dal suo assassinio, operazione politica che ha cambiato il corso della storia internazionale.
Sovranità
Se l’identità è la madre ed il tesoro di ogni popolo, se la comunità ne è l’espressione e un sistema sociale equo la garanzia di consenso nonché l’evidenza che non si può amare la propria gente senza volere per tutti e per ciascuno giustizia e benessere, la sovranità è la cornice di questo quadro ideale. Nondimeno, i globalisti ci insegnano che la competizione mondiale in cui ci hanno precipitati è fondata sulla universalizzazione delle libertà liberali: libera circolazione dei capitali (l’unica che davvero li interessi), delle merci, dei servizi e, naturalmente, degli uomini, cioè degli individui, zingari obbligati senza carovana del XXI secolo. Tali libertà dipendono dall’istituzione ed osservanza di regole uniche, uguali per tutti, a determinare e sorvegliare le quali devono essere organismi sovra e transnazionali. Peccato che tali organismi, Organizzazione Mondiale del Commercio, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, banche centrali, la stessa ONU, siano controllate dai vertici mondialisti. Si perviene quindi all’assurdo logico che la libertà risiede nella dipendenza! Verità è menzogna, pace è guerra, ignoranza è forza. George Orwell c’era arrivato già nel 1948 ((George Orwell (1903-1950) scrittore inglese, autore di “1984” e “la fattoria degli animali”.)).
La sovranità viene espropriata, sequestrata ed attribuita di fatto a questi nuovi soggetti, che costituiscono il braccio operativo di quel “terzo livello” di potere di cui diremo. Nel progetto della 4TP, il portatore della sovranità è l’Impero, i proprietari tutti i popoli in esso confederati. Le decisioni strategiche – pensiamo alle risorse energetiche, ad infrastrutture come le reti informatiche e di comunicazione, la rappresentanza nei confronti delle grandi entità statali ed internazionali saranno attribuite al centro, tutto il resto, davvero tutto il resto alle comunità. Multipolari all’esterno, plurali all’interno. L’Europa è un polo in sé, e la tensione morale suscitata da uomini come Jean Thiriart per un continente unito dall’Atlantico a Vladivostok possiede un evidente valore morale, è un indizio di “passionarietà”. Tuttavia, Europa e mondo russo restano due soggetti distinti, che condividono però un destino geopolitico e strategico. Possono, probabilmente devono diventare un unico grande spazio, caratterizzato da due poli, due “luoghi sviluppo”. La condizione preliminare è liberarsi, da parte europea, della soggezione nei confronti degli Stati Uniti.
Purtroppo, a dimostrazione che la seconda guerra mondiale è stata perduta da tutta l’Europa, non solo dall’Asse, la nostra dipendenza dall’altra sponda dell’Atlantico, l’impero autoproclamato benevolo, è diventata potente colonizzazione culturale e financo linguistica, e persistente protettorato militare. Non solo non esiste un esercito europeo, non solo non c’è una politica estera coordinata delle nostre nazioni, ma l’Europa non è neppure in grado di schierare forze armate e mezzi in grado di assicurare la difesa del territorio. Tutto ciò pur in presenza di conoscenze tecnologiche e strutture industriali in grado di produrre in casa gli arsenali che gli immensi interessi d’oltreoceano ci impongono.
La situazione non è diversa rispetto alle altre sovranità: pensiamo ai monopoli farmaceutici, chimici, all’agricoltura, alla politica monetaria. A qualunque livello, la sovranità non è nelle nostre mani. La sua ricostruzione, secondo la 4TP, passerà necessariamente da un salto di paradigma culturale. L’enigma, e l’immenso problema è che il cambio di passo, lo scarto nel corso degli eventi difficilmente matura senza un’identità, una direzione e senza quell’atto titanico di volontà passionale che vietano i materialismi e la decadenza morale. I grandi eventi, i tornanti della storia, nondimeno, possono esplodere in qualsiasi momento. I cambiamenti rapidissimi e drammatici che un europeo non più che sessantenne ha già sperimentato (il Sessantotto, la crisi energetica, la scomparsa della religione tradizionale, la fine del comunismo, la globalizzazione liberale, l’irruzione della Cina, l’islamismo risorgente, l’immigrazione di massa) dimostrano che altri terremoti avverranno, altri brusche impennate della vicenda umana si avvicinano. A livello filosofico, Heidegger parlava di “ereignis” i grandi eventi che si donano all’Essere e lo modificano.
Più semplicemente, il recupero di sovranità, che significa poi comandare su se stessi e nella propria casa, è l’evento che non va atteso, bensì preparato, progettato, conquistato. E’ l’obiettivo finale della nuova teoria politica, è anche il senso ultimo del “dasein”, poiché l’ esserci, l’esistenza non hanno significato alcuno se non entro comunità libere.
Capitolo VI
Il modello della 4TP
La confutazione dell’economia liberale
Un unico mercato, un unico modello economico, un’unica società civile modellata sulla competizione e sull’individuo portatore di meri interessi materiali, tanto che i vizi pubblici diventano pubbliche virtù, la svalutazione del potere pubblico, l’indebolimento degli Stati. Contro l’unico, che si converte in identico nell’ economia di scala, la 4TP schiera un arsenale nutrito e di grande impatto emotivo. La teoria è definitivamente avversa al comunismo reale per la violenza intrinseca, il materialismo, il burocratismo e la sua parentela stretta con il liberalismo nella distruzione delle differenze e nel soffocamento delle libertà. Più esplicito e sfacciato il moloch rosso, sfumata, sfuggente, ben più pervasiva l’astuta prassi liberale, allenata a solleticare gusti ed istinti delle masse quanto più enfatizza l’emancipazione individuale.
Alexsandr Dugin, la cui vasta cultura spazia in ampie aree della conoscenza, ha tenuto corsi universitari sulla figura di un grande economista che non gode di buona accoglienza nei manuali universitari e presso gli economisti alla moda, sia quelli legati alla scuola viennese, sia tra gli adepti dell’indirizzo monetarista di Chicago, poco letto anche dai keynesiani. Si tratta di Friedrich List ((Friedrich List (1789-1846).Economista tedesco. “Il sistema nazionale di economia politica”.)), tedesco, fautore e regista della Zollverein, l’unione doganale tedesca, reduce, come Tocqueville, da un lungo soggiorno americano che ne orientò il pensiero. Avversario di Adam Smith ((Adam Smith (1723-1790) Economista scozzese, considerato il fondatore dell’economia liberale. “Ricerca sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni.”)), egli dimostrò che la nascita stessa degli Stati Uniti è una confutazione delle teorie dello scozzese. Infatti, se fosse vero che ogni nazione, ogni individuo deve comprare liberamente le merci dove esse sono disponibili al prezzo più basso, le colonie americane non avrebbero dovuto ribellarsi all’Inghilterra, che invece pretendeva di esportare liberamente, ma impediva la nascita di una manifattura americana, controllava il sistema finanziario e l’emissione della moneta.
Alexander Hamilton ((Alexander Hamilton (1755-1804). Uomo politico americano, tra i protagonisti dell’indipendenza Usa, di orientamento federalista. )) fondò la Banca Nazionale americana nel 1791, di proprietà pubblica, incaricata di battere moneta nella misura necessaria alla domanda delle forze produttive. Già vent’anni dopo, la banca dovette chiudere per le pressioni dei latifondisti appoggiate dai banchieri privati. Che cosa sia diventato il mondo dopo la privatizzazione dell’emissione monetaria è sotto gli occhi di tutti, ed è oggi oggetto di dure confutazioni, dalla teoria della moneta credito di Giacinto Auriti, ((Giacinto Auriti (1923-2006). Giurista ed economista italiano. Fondatore della teoria della proprietà popolare della moneta.)) ai neokeynesiani della Modern Money Theory.
Un modello flessibile e misto
La 4TP non ha un suo modello economico sociale unico, in ossequio al pluralismo culturale e nel rispetto delle preferenze ed esigenze di ciascun popolo; nel pensiero di List e del russo Stolypin è facile rintracciare, a contrariis le linee generali di un’accanita opposizione al liberismo. Lo Stato era visto da Smith come un ostacolo, ed il protezionismo, ovvero la salvaguardia delle produzioni nazionali, una pura follia, mentre la storia, e soprattutto il comportamento reale della potenza dominante (ieri la Gran Bretagna, oggi gli Usa) dimostrano il contrario.
L’altro tema su cui List osteggiò l’economia liberale classica fu quello del giudizio su lavoro e capitale. Non serve essere comunisti per affermare che il lavoro non è una merce da compravendere al minor prezzo, come continua ad avvenire con gli esiti disgustosi che vediamo. List non solo considerava il lavoro come forza produttiva autonoma, ma introdusse la nozione di “capitale della mente”, riferito alle conoscenze ed alla cultura di chi lavora, prodotto delle condizioni morali e sociali della nazione, oltreché dalle specificità territoriali. List scoprì al tempo di Marx e della seconda rivoluzione industriale (la prima per la sua Germania) ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti, fuorché del potere unipolare: “Nelle condizioni attuali del mondo l’effetto di un libero commercio globale non porterebbe ad una libera repubblica universale, ma, al contrario, la soggezione delle nazioni meno avanzate sotto la supremazia della potenza dominante. Il mercato unico può essere realizzato solo fra le nazioni che hanno raggiunto un livello pressappoco uguale di industria e di civilizzazione, di civiltà politica e di potenza”. ((F. List. “Il sistema nazionale di economia politica”))
Con questo sono serviti l’Unione Europea ed il mondialismo liberista, al quale va contrapposto un modello misto, in cui il mercato sia bilanciato, integrato da forme di proprietà comune, di socialismo, di solidarismo o cooperativismo, senza ricadere nel collettivismo o nell’ostilità all’impresa, strumento di promozione individuale e sociale, di innovazione e di creatività, che deve essere indirizzato al bene comune. Principi di questo tipo sono presenti nel socialismo, quanto nel primo liberalismo e nei fascismi. Sono fonti di ispirazione non dogmatica, che ogni popolo potrà integrare con le proprie specificità, climatiche, storiche ed i principi morali della comunità.
Un pensiero complesso.
L’eurasiatismo è la cornice iniziale della 4TP. Tra le caratteristiche che la differenziano dal nazionalismo classico, dal populismo estremo e dal conservatorismo almeno tre sono imprescindibili: l’eclettismo culturale, che consente di accogliere apporti e stimoli provenienti dai più diversi ambiti; la lontananza da posizioni razziste, giacché riconosce come naturali e legittime le differenze tra i popoli; una certa diffidenza nei confronti del nazionalismo, visto come uno degli aspetti di quel processo di democratizzazione liberale che già da molto tempo lavora per la distruzione dei diversi ambiti culturali dell’Occidente. E’ una visione difficile da accettare per i cuori degli europei, ma ha una sua coerenza strutturale e deve essere colta nell’ambito di una teoria organica, complessa, che parla, come detto, di “imperium” con la stessa energia con la quale difende le ragioni dei popoli, delle etnie, delle nazioni.
Konstantin Leontiev, slavofilo, lo sosteneva già nel 1875, quando l’Europa era un ribollire di nazionalismi: “Eguaglianza di persone, eguaglianza di classi, eguaglianza (cioè uniformità) di province e di nazioni: si tratta sempre dello stesso processo”. Lo stesso Leontiev fu forse il primo ad intuire il ruolo messianico e distruttivo che avrebbero avuto gli Stati Uniti, definendoli “la Cartagine dei tempi moderni”. A ben vedere, il nazionalismo, come comprese anche Karl Marx, fu, sull’onda della Rivoluzione Francese e dei fatti del 1848, uno strumento della grande borghesia industriale e finanziaria, per aprire ed allargare i mercati, frenati da protezionismi, dazi doganali, consuetudini.
La legge Le Chapelier del 1791, in piena Rivoluzione Francese, sferrò un radicale attacco alle formazioni e agli enti intermedi fra Stato e cittadino, sopprimendo corporazioni, società benefiche ed educative, organizzazioni di lavoratori, società artigiane, organizzazioni politiche e di fatto, sconvolgendo l’assetto della comunità, il sistema delle fonti normative e contrastando la legittimità di ogni diritto diverso dalla norma statuale. La Zollverein tedesca del 1838 fu il primo, decisivo elemento per l’unificazione della Germania, realizzata poi dalla Prussia di Bismarck.
La stessa unità nazionale italiana è figlia da un lato della diffusione delle idee liberali tra le élite delle varie regioni e città, ma sul piano pratico e militare non sarebbe stata possibile senza il decisivo apporto degli interessi inglesi, cui premeva sottrarre il controllo del mediterraneo centromeridionale al Regno Duosiciliano e, contemporaneamente, fare dell’Italia un mercato aperto alle loro esportazioni ed alle istituzioni finanziare imperiali. Non a caso, l’oro del Banco di Napoli sottratto dai piemontesi prese la via di Londra e Parigi, pagò il debito della politica di potenza del regno sardo e finanziò la rete ferroviaria e la nascente industria del Settentrione.
No ai nazionalismi
I moderni nazionalismi si sono dimostrati uno strumento nelle mani dell’imperialismo globale americanocentrico, democratico liberale, ma soprattutto tecno mercantile. Nessuno Stato Nazione, tanto meno quelli del nostro continente ingabbiati nella soffocante Unione Europea, ha la forza di contrastare l’iperpotenza che agisce a livello planetario. Strumentalizzati e miopi, con lo sguardo puntato esclusivamente sui vicini, i nazionalismi insorgono contro altri nazionalismi, di livello più alto o più basso, convertendosi nei migliori alleati del nemico comune. Divide et impera, mentre popoli ed etnie si azzuffano come si beccavano i capponi di Renzo destinati alla cucina dell’avvocato Azzeccagarbugli.
Suscitare o fomentare contrapposizioni etniche, locali o nazionaliste è lo strumento migliore in mano al mondialismo liberista americano per prevenire l’ alleanza dei popoli contro di loro. Di fatto, il nazionalismo estremo lavora contro il popolo che esalta. Spesso, inoltre, le forze nazionaliste sono mosse da semplice xenofobia o da incultura.
Chi consulti i manuali di storia in uso nelle scuole della Catalogna scoprirà un florilegio di rancori anti spagnoli che sbocca in autentica falsificazione di almeno dieci secoli. Del pari, il nazionalismo centralista francese represse con violenza lingue e specificità di una parte importante dei popoli transalpini, arrivando ad invitare gli insegnanti a sputare in bocca ai bimbi bretoni che si esprimevano nella loro lingua. Nell’Europa balcanica, contrapposti odi nazionali hanno determinato tragedie infinite, massacri ed instabilità territoriale. Negli ultimi trent’anni, a soffiare sul fuoco sono stati due alleati di fatto, gli Stati Uniti – spalleggiati dagli stolti camerieri europei – e l’islamismo, con la partecipazione entusiasta della criminalità: Kossovo, Macedonia, Bosnia, Georgia, da ultimo l’Ucraina ne sono la prova.
Stati, popoli nazioni contro il modello unico.
Le convinzioni esposte non significano che la 4TP propugni la fine degli Stati nazionali, molti dei quali hanno storie secolari o persino millenarie, ma intendono distinguere patriottismo da nazionalismo ed ancor più aspirano a formulare una strategia multipolare: etnie, regioni, popoli Stati, uniti nel grande spazio-sviluppo comune contro le imposizioni del modello unico, oggi liberalcapitalista, domani potrebbe essere un altro, ma sempre dovrà essere combattuto in nome della diversità.
Una considerazione: il modello globalista dell’economia di scala mette in pericolo, tra l’altro, la biodiversità, ovvero la continuità di un numero immenso di specie vegetali ed animali, di interi habitat territoriali. Si levano giuste proteste da parte di ampi settori dell’opinione pubblica, ma non si registra analoga insorgenza contro la distruzione di gruppi etnici, lingue, civiltà umane. La 4TP è una ribellione contro tale stato di cose, in nome degli uomini di ieri, di oggi e di domani, del loro diritto di “esserci”: un’altra concreta declinazione del Dasein.
Indubbiamente, per una civiltà provvista di spazi immensi come quella eurasiatica, la costruzione statale naturale è l’Impero, ma nel secolo XXI soprattutto nella nostra parte di Europa occorre ridefinire i poteri tra i declinanti stati nazionali, una costruzione ibrida ed inadeguata come l’Unione Europea ed i poteri non elettivi ed oligarchici. In quest’ottica, Stato nazionale e grande spazio-sviluppo possono convivere, stabilendo le reciproche sfere d’influenza e promuovendo un’identità plurale fondata sulle comuni radici culturali: l’ imperium del Terzo Millennio.
La rivolta ideale
Se dovessimo inserire la 4TP in un unico filone ideale, parleremmo di una forma di Tradizionalismo realistico. Personalmente, Dugin si considera discepolo di René Guénon e Julius Evola ((Julius Evola (1898-1974) filosofo italiano; “Rivolta contro il mondo moderno” – René Guénon(1886-1951).filosofo francese. “Il regno della quantità ed i segni dei tempi”. Sono considerati i due maggiori pensatori tradizionalisti europei.)). Il limite delle elaborazioni dei due grandi tradizionalisti è il loro intellettualismo esoterico inadatto al lettore comune unito ad una visione apocalittica legata ad una Tradizione sacra, che lascia ben poco spazio sul terreno concreto dell’elaborazione pratica e della realizzazione di obiettivi. Combattere la modernità resta la missione complessiva dell’impianto della 4TP, al di là della stessa rivolta morale ed ideale. Si tratta, lo ribadiamo, di Cavalcare la tigre, tenendo conto che la guerra è in larga misura perduta, ma la capitolazione non è ancora giunta. Popoli e nazioni esistono ancora, molti segnali confortano, la rassegnazione non può appartenere al bagaglio degli uomini della Tradizione: “Niente è perduto, finché tutto non è perduto”, secondo Curzio Malaparte.
Roberto Pecchioli (3 — continua)
8 Comments