di Mario M. Merlino
Da militanti anni ‘60 del MSI (la mia permanenza ebbe breve durata, meno di tre anni) e delle organizzazioni giovanili dentro e fuori del partito avevamo una sorta d’invidia, che si trasfigurava in alcuni in vero e proprio mito, per la formazione dei quadri del PCI. Un’aurea di leggenda, un po’ tenebrosa (il che eccita le anime assetate d’avventura e lettrici di Emilio Salgari), circondava la scuola delle Frattocchie, alle porte di Roma.
Parto subito con un ricordo personale ( ‘E vai!’, si dirà qualche lettore ormai assuefatto a simili esternazioni, mentre io ho il sospetto che questi miei interventi su Ereticamente si stanno trasformando nel lettino dello psicanalista…Il negriero trasformato in Herr Doktor Freud!). Andiamo ad attaccare manifesti, ragazzini ed incoscienti, spingendoci fino in via delle Botteghe Oscure (quale nome appropriato per la sede nazionale del PCI!) e dintorni. Qualcuno ci vede e avverte il servizio d’ordine che staziona in vigile e permanente all’erta. Ne arrivano quattro o cinque, fisico armadio a doppia anta, mani come palanche, naso da mastino napoletano. Gli altri buttano secchio e pennello e scappano. Io no. Non per coraggio o amore della sfida, credo, solo che le gambe non mi reggono… Ho in mano il manico della scopa con cui si arrotolano i manifesti. Ridicolo. Mi si para davanti uno di questi orchi, appena uscito dalla fiaba di Pollicino. In un attimo di autocoscienza mi dico: ‘Ciao, Mario, anzi addio!’. ‘Non voglio menarti.’ – mi soffia sul viso, respiro di sollievo (il mio) – ‘Parliamo. Perché io, che sono proletario, sono comunista e tu, borghese, sei fascista’. Tenta di convincermi, io lo ascolto docile e annuisco con la testa. Non mi ha convinto, ma – lo confesso – sul momento ho pensato che era poco ‘educato’ dissentire…
Morale della storia: quelli erano i compagni, forse ‘trinariciuti’ come li definiva il buon Guareschi, che guardavano all’Unione Sovietica, madre di tutte le rivoluzioni, e che, segretamente dopo il XX Congresso, avevano nel cuore ‘a da veni’ Baffone!’. Quelli che non avevano alcun dubbio, esitazione di sorta, tentennamento. Il sol dell’avvenire era prossimo, stava scritto non nelle stelle ma nei testi di Marx, e sulla terra si sarebbe steso un candido velo per rasserenare l’umanità intera donando ogni bene e sanando ogni bisogno (nel frattempo bisognava accettare i cimiteri sparsi in tante parti del mondo con le loro fosse comuni di milioni di dissenzienti, di nemici del popolo, di traditori al servizio del capitale, di piccoli e grandi borghesi malati di egoismo, di piccoli e grandi proprietari terrieri attaccati alle zolle e al recinto con il bestiame). Erano, diciamolo pure, di una estetica tragica e affascinante; nomadi di un sogno grandioso e brutale; ubriachi ad abbracciare un lampione e confonderlo con la luna. Quelli, sì, con cui misurare le nostre forze i nostri ideali il nostro sogno… non quelli che, oggi, fanno la fila davanti ai gazebo o si sparano canne, emanando sudore e stracci quali bandiere nei centri sociali.
Ultima immagine. Sono in aereo per Cagliari. All’università si tiene un convegno sul ’68. Sono tra i relatori. Accanto a me siede il giornalista ed amico Sandro Provvisionato. Fine anni ’90, mi sembra di ricordare. Mi dice, riferendosi proprio alle Frattocchie, del suo fallimento se, dopo i D’Alema, vi sono dirigenti come i Folena i Fassino… Nostalgia di quella classe politica che era stata capace di sopravvivere nella Mosca di Stalin e ai ricorrenti processi e purghe (si legga, ad esempio, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler); che s’era costruita titoli di merito con il colpo alla nuca e la tortura nella Spagna della guerra civile (si legga, ad esempio, Omaggio alla Catalogna di George Orwell); che nella ‘nostra’ guerra civile era stata la più agguerrita e brutale fino allo scannamento e allo scempio di piazzale Loreto (ai miei alunni Armando Cossutta disse esplicitamente, riferendosi alle carrette cariche di fascisti assassinati a Sesto San Giovanni, nell’aprile del ’45, che costoro ‘non erano neppure uomini’).
Anche questo va rimproverato al nostro tempo: averci tolto il nemico da guardare negli occhi o, come diceva Nietzsche, ‘voi dovete essere soltanto nemici cui si convenga l’odio, non il disprezzo’. Oggi sappiamo, certo, chi sono i nostri nemici, ma non li vediamo. I consigli d’amministrazione, i detentori delle grandi banche, l’usura elevata a norma, i finanziatori delle testate giornalistiche. E, in televisione, ci appaiono compresi nella serietà del ridicolo le loro maschere… E quel comunismo, di cui rifuggimmo in modo subitaneo e definitivo le lusinghe, dov’è andato ad infrangersi? Non tra le macerie di Berlino difesa da un pugno di volontari europei e da quei ragazzini con il panzerfaust, no, per qualche lattina di coca-cola per un concerto di musica rock all’Est e, da noi, la cravatta intonata ai calzini la pelliccia e i salotti bene di Roma dal ventre caldo e le cosce accoglienti…
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