“Venezia Giulia-Istria-Dalmazia Pensiero e Vita Morale – Tremila anni di storia – Antologia critica – Cronologia” di Carlo Cesare Montani (Udine: Aviani & Aviani Editore, 2021. 407 p.)
Un’opera molto ben strutturata
Il volume, composto di 407 pagine, è diviso in tre parti. Da bibliotecario, quale io sono, posso dire di essere rimasto meravigliato dall’abile maniera in cui questo testo risponde alle esigenze del lettore e anche del ricercatore. L’Autore, infatti, fa seguire alla “Parte prima”, contenente una sintesi dei “Tremila anni di storia”, una “Parte seconda” intitolata “Antologia critica” che sviluppa i grandi temi. Quindi vi è la “Parte terza” che contiene la “Cronologia” con l’indicazione dei grandi periodi in cui questa storia trimillenaria può essere divisa. Particolarmente interessante ho trovato la sezione “Annotazioni” – una o due pagine – posta dopo ogni capitolo e che arricchisce e chiarisce ulteriormente il tema trattato. Alla fine del volume troviamo la “Bibliografia”, l’“Indice dei nomi propri”, l’“Indice dei nomi geografici”, l’“Emeroteca”, l’“Indice generale”. L’effetto di questa varietà di approcci agevola la ricerca all’interno del volume. Inoltre lo stile del testo, sempre chiaro e direi elegante, ne rende la lettura scorrevole e anche piacevole.
La Prefazione dell’avv. Augusto Sinagra, persona magnifica che idealmente e nei fatti si è fatto il procuratore legale degli infoibati, brilla per nobiltà e autenticità.
Per la sua alta qualità e per la sua evidente utilità questo manuale di storia andrebbe tradotto per poter essere diffuso anche al difuori d’Italia (già esiste, comunque, la pubblicazione bilingue di Carlo Montani: “Venezia Giulia Dalmazia – sommario storico; An Historical Outline” Trieste: A.D.E.S., 2002, 183 p.).
I valori identitari dei giuliano-dalmati
Qual è il legame identitario che accomuna tutti noi originari di quel “comprensorio istriano, fiumano e dalmata” da cui siamo stati estromessi attraverso la violenta pulizia etnica attuata dal nazionalismo comunista slavo? Il legame fondamentale è dato dalla nostra cultura “costantemente riferita a quella latina e più tardi, a quelle veneta e italiana”.
Alla notevole capacità d’analisi storica del nostro autore si sposa una scrittura precisa, ampia, armonica che risplende di chiarezza ma in certi passi anche di sentimenti, perché per l’autore, così come per tutti noi di quelle terre, l’identificazione nazionale o se vogliamo culturale, e forse è meglio dire “psico-sociale”, è una potente calamita storica alla quale è impensabile ed impossibile resistere. Montani parla appunto di “unità psico-sociale” per designare il fattore unitario che ha permesso ai giuliano-dalmati di attraversare la lunga storia di quelle terre rimanendo una collettività distinta, con una cultura dal carattere prioritario perché più antica e più ricca delle altre presenti nel territorio.
In questa magnifica opera, i grandi periodi storici si succedono rivelando la costante influenza unificatrice che il comune orientamento culturale ha fornito alle genti di quelle terre attraverso un insieme di valori e codici di comportamento e tratti di carattere costituenti un coefficiente di coesione e di unità.
Tra i fattori contributivi della nostra identità particolare di giuliano-dalmati ve n’è uno che ci ha contraddistinti attraverso i secoli rispetto soprattutto alle etnie slave: la mitezza. Cui si aggiunge un profondo senso giuridico. Montani: “si può dire che la certezza del diritto sia stato un altro carattere originale della storia locale non meno importante della carenza di una sovranità propria”. Questo insieme di valori è giunto fino a noi, che siamo gli ultimi esponenti di quel mondo ormai perduto ma interiorizzato da noi per sempre. E che, secondo la mia pessimistica visione, con la morte nostra e quella di un paio di generazioni successive morirà, come mondo già italiano divenuto pienamente slavo, ad onta delle pietre che parlano ma che pochissimi ascolteranno perché queste pietre parlano una lingua che gli occupanti non amano. E questa fine sarà propiziata proprio dall’Unione Europea, assai poco sensibile al proprio passato.
Una storia non a lieto fine
Animato, oltre che da rigore storiografico, da un nobile senso etico e direi cristiano della vita., l’Autore indaga e presenta da par suo quell’ampia e lunga tela storica, rifuggendo saggiamente da astiose polemiche e da giudizi aspri di condanna. Che pur sarebbero giustificati come risposta agli insulti che frange della Sinistra indirizzano tutt’oggi a noi, esuli o figli di esuli, considerati complici, nientedimeno, del famigerato “male assoluto”. Che oltre che essere assoluto si direbbe sia anche eterno.
L’Autore si addentra nei sentieri e nei meandri della storia plurimillenaria delle nostre amate terre della sponda opposta dell’Adriatico, trascinandoci con sé, silenti e ammirati, attraverso la sua scrittura chiara, elegante dal ritmo avvolgente. Ma questa lunga storia termina con la nostra tragedia; di noi, che abbiamo perso il nostro angolo di mondo, travolti dalla pulizia etnica attuata dal nazionalcomunismo slavo, oggi rimpiazzato, preciso io, dal radicato forte nazionalismo degli sloveni e di quello dei croati, che se pur se imbevuti del loro tradizionale odio reciproco, appaiono concordi nella loro altrettanto tradizionale avversione antitaliana. Incoraggiati e aiutati in ciò dalla voluttà autolesionistica e autodenigratoria dei governanti italiani, proclivi alla posizione supina che tanto facilita “i rapporti di buon vicinato”: il qual leitmotiv ha da tempo rimpiazzato in Italia l’accorato messaggio del coro del Nabucco, caro agli irredenti e ai loro discendenti.
Istria, Fiume, Zara non sono un semplice ricordo per coloro che vi hanno vissuto e che sono fuggiti via in massa per salvaguardare la propria identità di italiani, sottraendola al rullo compressore slavo comunista. L’antico mondo è rimasto dentro di loro con i suoi colori più belli. Penso ai miei genitori che a Pisino vi avevano lasciato il cuore. A Pisino, non a Pazin, abitata ormai interamente da un popolo straniero. La loro amatissima Pisino rimase inalterata in loro fino alla loro morte, avvenuta in Canada. Di Pisino parlavano, direi, ogni giorno. Una Pisino che avevano interiorizzato, come si interiorizzano i morti a noi cari, ma che poi, col sopraggiungere della nostra stessa morte, muoiono anch’essi per sempre.
Carlo Cesare Montani sempre rispetta la verità storica che invece è oggi distorta, anche grottescamente, dall’ideologismo dei nazionalismi slavi, amorosamente spalleggiati dai nostri progressisti italiani. Valga per tutti l’esempio del noto politologo Sergio Romano per il quale il continuare a chiamare “Fiume” invece che “Rijeka” la nostra Fiume, città oggi croata, è manifestazione di revanscismo. A costoro si contrappone l’onestà intellettuale e il rigore storico del nostro Carlo Cesare Montani che non esita nel volume, quando è necessario, a fare precisazioni del genere: “Le zone interne hanno avvertito in maniera relativamente meno accentuata l’influenza latina e veneta”.
Queste terre romane, venete, italiane con una percentuale di popolazione multietnica sono state sotto il dominio di Venezia, hanno fatto in seguito parte dell’Impero asburgico, per poi congiungersi all’Italia tra le due guerre mondiali. Ma sono infine divenute giuridicamente jugoslave col Trattato di Pace (Diktat) del 1947. Quindi, dopo la caduta del Muro, la Jugoslavia, attraverso una guerra civile improntata alla tradizionale barbarie balcanica, si è disfatta lungo le cuciture che tenevano insieme le sue varie componenti etniche e ha dato nascita alle nuove repubbliche “ex jugoslave”. E così la Jugoslavia è tornata a non esistere.
Il sentimento nazionale
Ernest Renan: “La nazione è un’anima, un principio spirituale. L’una è nel passato, l’altro è nel presente. L’una (l’anima) è il possesso in comune dei ricchi lasciti del passato, l’altro (il principio spirituale) è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme”. Se insisto sul concetto di Nazione è perché il sentimento nazionale nostro, latino-veneto-italiano, è il filo conduttore di questa esplorazione attraverso la Storia che Montani compie nel suo “Venezia Giulia-Istria-Dalmazia Pensiero e Vita Morale – Tremila anni di storia”; in cui i termini “Pensiero e Vita Morale” del sottotitolo evocano l’ansia nazionale di cui i nostri antenati furono permeati, e che noi ancora oggi portiamo dentro ma come un doloroso fardello in un’Italia che somiglia sempre più ad un malriuscito Stato-Nazione.
I politici italiani raramente pronunciano la frase “interesse nazionale”, espressione che nel condizionamento psicologico operato a danno dei vinti, e nel rincretinimento generale invalso nell’Unione europea, avrebbe un sottile legame col male assoluto. Questo analfabetismo, nello Stivale, in materia di Patria somiglia, mutatis mutandis, al mio digiuno in materia di calcio, materia che suscita invece passione guerriera nei maschi italiani. Su questi uomini di parte anzi di partite, intese come se fossero guerre, Churchill espresse uno sprezzante giudizio: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”
L’identità nazionale è parte intima dell’essenza dell’uomo. Gli studiosi indicano come data d’inizio dello Stato-Nazione il XVIII secolo. In realtà, anche i principati, i comuni, e le innumerevoli altre forme civili o religiose di governo e di appartenenza collettiva erano espressione dell’insopprimibile aspirazione degli uomini alla difesa della propria identità. Costituita dalle caratteristiche di gruppo che insieme con l’attaccamento al suolo nativo e il senso di un destino comune creano solidarietà tra i cittadini, i quali provano un sentimento simile a quello di naviganti di una stessa nave in acque nemiche.
Purtroppo negli italiani il sentimento nazionale è molto debole. Nello Stivale lo spirito di fazione e di divisioni supera il sentimento unitario. E ciò secondo il giudizio quasi unanime di coloro che hanno scritto sulla storia d’Italia e sul carattere degli italiani. Inutile dire, quindi, che il nostro sentire – di noi, originari delle terre perdute – viene inevitabilmente qualificato come “nazionalista”, termine dalla connotazione molto negativa nello Stivalone. Per non usare l’altra parola ben nota che nelle intenzioni altrui è sempre infamante. Al nostro amor patrio si contrappone il qualunquismo di quegli italiani che si pavoneggiano col mondialismo e la globalizzazione e con la loro passione fasulla per il “diverso”; purché il diverso sia uno straniero, mentre i diversi nostrani sono oggetto di intolleranza nel nostro paese, tradizionale vivaio di odi civili.
Qualcuno del Bel Paese ci dirà che noi siamo dei superati, dei reazionari e degli estremisti perché restiamo fedeli ai valori secolari di appartenenza, di lealtà, e abbiamo un sentimento di partecipazione a un destino nazionale comune. Penso di aver il diritto di esprimermi in maniera decisa su questa vergognosa mancanza nel Bel Paese di un normale sentimento nazionale, dotazione invece della gente normale dei vari paesi attraverso il globo, nessuno escluso. Questo diritto mi è dato dall’ampia conoscenza che ho delle identità nazionali. Da espatriato ho conosciuto altri popoli. Ho potuto studiare da vicino lo straordinario legame di fedeltà al passato – un passato francese – posseduto dai franco-canadesi del Québec, dove risiedo. Ho trascorso lunghi periodi a Budapest, dove è nata e risiede mia figlia. Ho conosciuto dal vivo la realtà del Multiculturalismo di Stato vigente in Canada, così come posso dire di conoscere il sentimento di appartenenza delle popolazioni indigene, le “Prime Nazioni”, la cui civiltà è stata distrutta dagli europei conquistatori.
L’analfabetismo degli italiani in materia di dignità nazionale è stato aggravato, io credo, dall’attuale europeismo negatore delle proprie frontiere e sostenitore di un paradossale mondialismo ecumenico degno invero dei papi, basato com’è sul culto di una sequela di diritti fondamentali considerati universali, assortiti di scarsissimi doveri. Questo mondialismo che beatifica ed esalta il diverso, considerato moralmente superiore a noi, demonizza invece i discendenti degli artefici del glorioso passato europeo: il nostro passato. L’innaturale propensione dei governanti italiani a non fare l’interesse nazionale è un motivo che ogni tanto torna nel volume, in riferimento alle ricorrenti gravi decisioni dell’Italia di dare precedenza all’interesse nazionale altrui.
Maria Pasquinelli: un gesto isolato
Maria Pasquinelli uccise con un atto cruento, profondamente meditato e mai rimpianto, il generale britannico Robert De Winton, in segno di protesta per la sorte delle popolazioni italiane delle terre cedute alla Jugoslavia. Ma “la scelta armata” di Maria Pasquinelli, un essere di alta spiritualità e profondamente lucido che antepose l’interesse dell’onore della nazione e del suo onore, al proprio interesse personale, rimase un fatto isolato. Il comportamento della Pasquinelli, prima, durante il gesto supremo, e in seguito da detenuta, e quindi da donna libera, fu straordinariamente coerente con i suoi ideali patriottici e con la sua umanità. Anche se il suo gesto fu un gesto di morte nei confronti di De Winton.
Tra i tanti spunti di riflessione che Carlo Cesare Montani ha suscitato in me, ve n’è uno che mi ha quasi turbato ponendomi di fronte a qualcosa cui non avevo mai pensato: il nostro carattere mite è stato forse la nostra condanna. Montani: “Tuttavia, non è infondato chiedersi, a livello di mera ipotesi, cosa poteva accadere se Maria, invece di essere verosimilmente unica, fosse stata imitata da cento, mille, diecimila patrioti.”
La nostra disperazione di fronte alla pulizia etnica, all’esodo, e all’accoglienza spesso ostile ricevuta dai comunisti e filocomunisti italiani della penisola non si è mai tradotta, purtroppo, in reazioni violente, che pur se in contrasto con gli ideali del Vangelo, ai quali noi giuliano-dalmati siamo tradizionalmente sensibili, ci avrebbero valso forse un destino diverso, o se non altro maggior rispetto da parte dei “fratelli” italiani, sempre pronti a schierarsi dal lato del più forte, specie se straniero. E la nostra accettazione cristiana di “un’enorme tragedia epocale” non è stata mai riconosciuta come un titolo di merito, ma anzi la Sinistra se n’è prevalsa largheggiando in menzogne e anche in dileggi contro di noi.
Questo mio ragionamento può turbare i seguaci di un buonismo associato al culto del diverso: lo straniero; i quali celebrano la sconfitta di un presunto male assoluto che almeno nelle nostre terre era spesso incarnato da tanta gente per bene, onesta, patriottica, altruistica di cui i nostri genitori e progenitori sono stati un esempio. E su di loro non vale certamente la narrativa hollywoodiana né quella di Cinecittà che hanno voluto operare il capovolgimento della realtà. Una realtà vissuta direttamente da alcuni di noi o attraverso i nostri genitori e i nostri nonni, e sulla quale noi non accettiamo le menzogne fatte precipitare su quel passato, a valanga.
Quanto alla domanda “circa le ragioni per cui ‘gli istriani non si difesero con le armi’, è stato già rilevato come i motivi essenziali siano da ricercare nella paura, nelle indecisioni, nel rifiuto del plebiscito, nel disimpegno degli Alleati, e prima ancora, nell’atteggiamento pilatesco del governo italiano”. Ma io penso anche all’assoluta impunità e alla disinvoltura con cui oggi ci si schiera contro di noi e i nostri morti, facendo addirittura conferenze che negano le foibe, o ricorrendo all’insulto in nome di un’ideologia antitaliana straordinariamente diffusa nella penisola. Intellettuali, politici, gente comune trovano facile, ancora oggi, contestare ed insultare i nostri morti.
L’eradicazione di una cultura – I rimasti – Nuovi scenari?
Con l’esodo quasi unanime della popolazione italiana, la cultura particolare dei nostri mondi, che nel leone di San Marco avevano il loro antico simbolo identitario, si è sfaldata e sbiadita in quelle nostre terre, finendo schiacciata dalla cultura slava attraverso la ben programmata opera di eradicazione del passato italiano.
Nonostante la presenza di minoranze italofone, ridotte all’osso, la storica cultura d’impronta italiana è stata nei fatti abolita attraverso la pulizia etnica operata dal regime dittatoriale slavo e in conseguenza della partenza di gran parte della popolazione italiana, rimpiazzata da gente giunta da altrove. Sul carattere italiano del grosso di queste minoranze italofone è lecito avere dubbi. Per “i rimasti” è senz’altro vantaggioso gonfiare il numero dei cosiddetti italiani perché l’Italia è una generosa dispensatrice di fondi. Alla realtà teorica di dati statistici circa la consistenza delle alquanto fantomatiche minoranze italiane, e circa i programmi di Slovenia e Croazia incentrati sul bilinguismo, si contrappone la realtà effettuale in cui ci si imbatte recandosi lì da turisti, come è avvenuto a me di recente.
Nel cimitero di Pisino, dove mi recai anni orsono, sulle lapidi tombali le stelle rosse comuniste già rivaleggiavano con le croci cristiane. Gli ex jugoslavi possono vantarsi, oggi, nei loro nuovi stati venuti fuori dallo smantellamento della federazione jugoslava, di essere riusciti a smantellare ben prima, molto bene e per intero il nostro mondo. E il tardivo, innocuo bilinguismo slavo-italiano in Slovenia e Croazia, dei cartelli stradali e delle targhe identificative di certe strade, piazze, edifici, monumenti, è un semplice epitaffio funebre che reca omaggio ai discorsi ufficiali europei ispirati al mondialismo, al buonismo, alla concordia tra i popoli. In realtà, ancora una volta: “Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato… Scurdammoce o’ passato”. Questo detto partenopeo ben s’intona, oltre tutto, ad un certo spirito di napoletanizzazione che dal Vesuvio si è propagato al resto d’Italia, non risparmiando neppure Trieste.
In uno slancio di moderato ottimismo, il caro nostro Montani non esclude che il terzo millennio possa apportare “scenari in precedenza imprevedibili”. La demolizione delle vecchie barriere, anche se i confini in sostanza restano, l’entrata delle repubbliche slave nell’Ue, l’istituzione del Giorno del Ricordo, “un clima di miglior vicinato e di maggior osmosi” lascerebbero ben sperare anche perché “nella storia umana i corsi e i ricorsi sono sempre attuali”. Montani è inoltre fiducioso che l’interesse politico e storiografico per una storia giuliana, fiumana e dalmata “a prescindere dall’impostazione di base (…) che non sia chiaramente finalizzata al sostegno di tesi precostituite” possa propiziare un futuro fatto di comprensione e rispetto, con l’abbandono di “ogni infruttuoso e improduttivo dogmatismo”.
Gli insegnamenti della storia
I temi discussi suscitano l’interesse del lettore anche per la maniera chiara e per lo spirito partecipativo con cui vengono trattati da Carlo Cesare Montani. Questi temi sono in sintonia con le altre pagine del volume, perché attraversati da un filo rosso anzi tricolore: il legame identitario di cultura, di storia, di sentimenti che accomuna tutti noi, originari di quell’area istro-dalmata da cui siamo stati estromessi attraverso la violenta pulizia etnica operata dal nazionalcomunismo slavo.
Ma perché questo bisogno di studiare il passato? Qual è il significato della Storia? Non mancano nell’opera di Montani giudizi e citazioni al riguardo. Erodoto, Tucidite, Tacito, Vico, Hegel, Croce e numerosi altri studiosi possono darci insegnamenti sul significato della storia. Si parla di utilità della storia, la cui conoscenza ci aiuta a non ripetere gli errori del passato. Si dice che “Un popolo senza memoria è un popolo senza avvenire”.
Io non credo ad una Storia generale, unica, sorta di rettilineo per tutti, in cui sul male finisce col trionfare il bene o se non altro il meglio. Oso dire che l’esperienza della storia fatta da noi europei in questi ultimi due secoli non mi pare confermi una tale ottimistica tesi. Oltretutto, invece di una storia unica esistono tante storie collettive e familiari e individuali, che non sono delimitate ma che spaziano e si intersecano con altre. La storia ci aiuta a conoscere le linee della nostra identità collettiva, il che si traduce in una migliore conoscenza dei contorni e addentellati della nostra stessa storia individuale, perché ognuno di noi è inserito in un insieme che ci ha fatti quali noi siamo. L’insieme più alto è la nazione, che ci fa sentire accomunati e solidali come i passeggeri di una nave destinata ad affrontare un mare che sappiamo sarà agitato.
L’atteggiamento rinunciatario in politica estera
Nel corso del lungo periodo che va dalla fine della guerra ad oggi, l’acquiescenza alle esigenze del momento, in funzione sempre antitaliana, è stata dimostrata dai governanti del Bel Paese in più di un’occasione. Montani ci dice ch’essi hanno adottato la “rinuncia come momento fondamentale nelle scelte di politica estera” in contrasto, inoltre, con i principi fondanti della Costituzione repubblicana che statuiscono che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.
Il comportamento dei furbi italiani in certe circostanze storiche può evocare il senso di realismo e il presunto fatalismo insiti agli insegnamenti di Machiavelli. L’Italia “ha fatto propria l’apparente rassegnazione all’ineluttabile che si è voluta ravvisare nel pensiero di Nicolo Machiavelli, pur non essendo mai appartenuta al suo disegno strategico, governato dall’affermazione di autonomia della politica nell’ambito di una consapevole aderenza al fine supremo di salvezza dello Stato, e quindi della sua difesa con criteri di assoluta priorità”. In realtà il loro comportamento rivela opportunismo, qualunquismo, cinismo nei confronti dello Stato la cui salvezza costituisce invece per Machiavelli il bene supremo. Dell’insegnamento fornito da Machiavelli, ci spiega Montani, essi hanno adottato l’accettazione fatalistica della realtà ma non “il fine supremo di salvezza dello Stato”.
1975 – L’Italia rinuncia alla Zona B
Carlo Cesare Montani ci ricorda con dovizia di particolari gli atti commessi da questi complici post factum dell’Esodo. Tra questi complici sono da porre i rinunciatari della Zona B, ceduta alla Jugoslavia attraverso il trattato italo-jugoslavo di Osimo (1975). Subito dopo il crollo del Muro (1989) di Berlino – designato ufficialmente “Muro antifascista” dalle autorità della Germania dell’Est – abbiamo assistito al saltarsi alla gola delle etnie componenti la federazione jugoslava. Il che ripropose agli occhi del mondo intero la tradizionale vocazione balcanica alle vendette e alla violenza. L’Italia avrebbe potuto trar profitto da quei momenti di estrema debolezza della controparte slava, e in particolare della Slovenia, beneficiaria dell’eredità territoriale costituita dalla zona B, per rimettere in questione certe funeste decisioni di un nostro governo del passato (i governi in Italia cambiano continuamente). Ma il governo italiano, allora “semper fidelis” all’arco costituzionale, preferì ribadire la propria nullità da stato sovrano, incapace di affermare e difendere l’interesse nazionale. “L’occasione sarebbe stata particolarmente idonea a promuovere le ipotesi di revisione dei trattati” scrive Montani. Ma vi fu conferma ancora una volta della “ricorrente vocazione italiana nelle relazioni con l’estero, riassumibile in un atteggiamento attendista se non anche rinunciatario”.
Io credo che non ci siano parole sufficienti per descrivere questa rinuncia, indegna di uno Stato sovrano: l’Italia ha unilateralmente ceduto alla Jugoslavia una piccola, ma quanto bella e preziosa, parte dell’Istria che giuridicamente era rimasta in sospeso tra noi e gli slavi. L’approfondita analisi di Montani del vergognoso evento, basata sugli aspetti storici e giuridici, mette a nudo il carattere ignobile di una tale rinuncia, che il nostro storico fiumano giudica un vero tradimento nel senso giuridico del termine e quindi reato imprescrittibile. Montani: “… a memoria d’uomo, non era mai accaduto che uno stato sovrano come l’Italia rinunciasse alla sovranità su una quota importante del proprio territorio senza alcuna contropartita, come accadde nella fattispecie”. A questa rinuncia “furono contrari i soli parlamentari del MSI e alcuni dissidenti del cosiddetto ‘arco costituzionale'”.
Tra questi dissidenti mi è caro menzionare il socialdemocratico Fiorentino Sullo sul quale ho scritto tempo fa una nota dolente che qui ripropongo: “Ricordo ancora con vergogna e dispiacere che da ragazzo, discutendo di politica, ridevo udendo – vivevo a Napoli – la qualifica di ‘ricchione’ ossia di omosessuale rivolta a Fiorentino Sullo, democristiano di sinistra. Un politico invece onesto, un essere nobile e coraggioso, e un autentico patriota che nel 1975 fu uno dei pochi ad opporsi all’ignobile cessione della sovranità, sulla cosiddetta Zona B, alla Jugoslavia (Trattato di Osimo). Montani chiarisce: Sullo dichiarò che suo padre ‘aveva combattuto sul Carso e sul Pasubio’ e che gli sarebbe parso di ‘tradirne la memoria se avesse votato per il Governo’”. A ciò aggiungo oggi: onore da parte nostra al compianto Fiorentino Sullo, autentico italiano.
A sentire invece Sergio Romano, ambasciatore che non porta pena per le pene di noi esuli, “il trattato sarebbe uno straordinario ‘vanto’ della diplomazia italiana”. Questo suo lusinghiero giudizio su un evento vergognoso e addirittura infame illustra chiaramente lo strano fenomeno dello spirito “a-nazionale”, diffuso in Italia e che è un fenomeno unico, oso dire, nel consesso delle nazioni. Non bisogna dimenticare che gli ambienti progressisti italiani contavano sulla Jugoslavia come leader dei paesi non allineati e modello di superamento degli egoismi borghesi e dei conflitti interetnici. Ma dopo qualche anno ci sarebbe stata la dissoluzione dell’artificiosa costruzione, tanto osannata in Italia in particolare da Craxi, per non menzionare Pertini.
Io ricorderò sempre le parole del giornalista Piero Buscaroli, rara voce stonata nel coro del gregge belante: “Lo spettacolo che l’Italia ha offerto, popolo e classe politica, con la rinuncia ai diritti sovrani sulla Zona B dell’abortito ‘Territorio libero di Trieste’ denuncia uno stato di agonia assai prossima alla morte storica. Totale indifferenza dei cinquantacinque milioni di italiani, tolte le minoranze, solitarie come sentinelle nella notte. Nessun governo ha il diritto di liquidare una partita territoriale con la pacca soddisfatta dei mercanti di porci. Dovere di una classe dirigente, di un governo, di un parlamento, che non siano in condizioni di far valere una pretesa territoriale, è di trasmetterla, intatta, alle generazioni future.” La Federazione Jugoslava non molti anni dopo la rinuncia degli italioti tirerà le cuoia, rimettendo almeno teoricamente sul tappeto il tema della successione e della validità degli antichi trattati.
Un popolo nel quale è difficile riconoscersi
Di fronte a questi italiani tradizionalmente amici del nemico si prova non odio ma disgusto e disprezzo, con la consapevolezza che il loro Dna – non voglio offendere, ma sono pronto anche a subire un test – non è certamente quello nostro. E ci par lecito pensare che forse fu un colossale errore antropologico l’identificarsi, da parte dei nostri padri, con un popolo una buona fetta del quale ha solidarizzato con i nostri carnefici, ha espresso il partito comunista più forte al di fuori della cortina di ferro, ha prodotto le Brigate Rosse, e ha amato sempre assumere la posizione supina nei rapporti di buon vicinato con la Jugoslavia. Ed oggi la assume anche nei confronti dei cosiddetti disperati, cioè i migranti illegali, spesso arroganti e violenti, causa di paura e di disperazione per i nostri assai poco combattivi italiani, ormai in maggioranza anche in avanti con gli anni.
Il Giorno del Ricordo
La legge “30 marzo 2004 n. 92” (Roberto Menia) ha istituito il Giorno del Ricordo. L’ufficializzazione del nostro Esodo, considerato concluso, e al quale il Giorno del Ricordo ha voluto restituire una dimensione nazionale ufficiale, non ha potuto arrecare a tutti l’ambito conforto. Molti sono morti prima del riconoscimento da parte del governo italiano delle violenze e delle ingiustizie da noi subite; penso ai miei genitori. Per molti esuli, specialmente per quelli finiti lontano dall’Italia, quel riconoscimento ufficiale non ha potuto sublimare il senso dell’assurdo, e l’amarezza e il disagio per le vicende personali e familiari collegate a quell’evento storico. Su questi sentimenti solo la morte potrà apporre la pietra tombale.
In occasione del Giorno del Ricordo non mancano mai le reazioni antitaliane di tanti personaggi della penisola, che offendono la memoria dei nostri infoibati negando o banalizzando o giustificando le foibe. Il che provoca in me disgusto e disprezzo per questi italiani particolari, sono una moltitudine, che hanno nel sangue la passione per l’altro, per il diverso, per lo straniero, e nel nostro caso per il nostro nemico.
Il carattere cerimoniale e ritualistico della commemorazione del nostro esodo, dai contorni ormai un po’ standardizzati in forza delle immagini della Tv e dei giornali, e che è considerato burocraticamente concluso, può addirittura acuire il senso di solitudine in chi, come conseguenza di quel dramma che ha fatto sparire un mondo e che è coinciso con la morte della patria, non è potuto mai pervenire ad una normale egoistica tranquillità interiore.
Un senso di solitudine
Si prova simpatia, pietà e solidarietà per i personaggi anziani che si alternano in occasione del Giorno del Ricordo su scena in Tv e ci raccontano la loro dolorosa storia. Una storia che almeno per loro sembra essersi conclusa, oggi che sono serenamente attorniati dagli affetti familiari nella bella Italia. Io ogni volta provo un disagio esistenziale e quasi invidia udendo parlare chi ha avuto la grande fortuna di rimanere nel quartiere giuliano-dalmata di Roma, oppure – ed è la stragrande maggioranza – di essere andato a vivere in uno dei tanti posti piacevoli e talvolta incantevoli d’Italia, mettendovi per sempre radici.
Io invidio chi è potuto tornare in vacanza, anno dopo anno, in Istria, a Fiume, in Dalmazia, dove ha potuto dormire in casa sua; l’antica di un tempo o una casa comprata in seguito o la casa di parenti o di gente amica. Io invece vivo all’estero in un posto come il Québec dove la mia anima non ha messo mai radici, perché qui si affrontano da sempre due identità storiche: la francese e l’inglese; e qui fino a non molto tempo fa l’italofobia era la norma. Io non saprei, anche se volessi, dove tornare, non dico tornare in Istria ma neppure in Italia definitivamente. E penso non solo a me ma ai tanti che ho conosciuto negli Stati Uniti, in Canada, in Argentina e altrove, e che avevano le ferite di quei lontani giorni ancora aperte. Ferite fatte di rabbia, di paura e di disorientamento, o di rimpianto struggente per aver lasciato l’Italia (penso a mia cugina Luciana Bresciani e ad altri che vivono in Argentina). Sentimenti, questi, in genere estranei a quanti sono rimasti nella penisola, e che hanno finito col diventare degli italiani doc (“C’è sempre un prezzo da pagare…”).
Da qualche decennio, la memorialistica di cui sono autori i sopravvissuti alla pulizia etnica, dispersi ai quattro angoli del mondo, abbonda di testimonianze. Leggendo certe pagine di questa produzione, talvolta artigianale ma profondamente vera, si può ritrovare in tali scritti una parte di sé stessi. Il che avviene anche per me alla lettura di certe pagine. Ma solo in una parte minima di questa memorialistica, devo confessare, io ritrovo la mia vicenda personale che è strettamente – e forse atipicamente – connessa a quella dei miei genitori; i quali per l’intera loro vita rimasero irrimediabilmente e dolorosamente legati alla loro Pisino.
Essi sono morti a casa mia in Canada, al termine di un doloroso esilio, dopo una vita trascorsa onorando, con il loro comportamento e i loro nobili e sofferti sentimenti di lutto, la perdita di Pisino e dell’Istria. Mario Antonelli (Antonaz) e Gioconda Bresciani mai più tornarono nella loro cittadina di nascita, né mai più valicarono il confine italo-jugoslavo non potendo accettare la presenza dell’invasore slavo nelle case e nelle strade della nostra Pisino, divenuta una Pazin quasi squallida perché ritornata, dopo lo scatenamento della ferinità delle tribù slave, ai primordi rappresentati dalla sua Foiba.
La città della Foiba e del Castello Montecuccoli è rimasta per sempre nel mio animo ma impigliata alle memorie familiari di morte e di fuga, e come avvolta dal sudario delle tante menzogne che le autorità comuniste slave hanno lasciato in eredità ai loro successori, comodamente oggi non più comunisti. È rimasta anche prigioniera, Pisino, delle paure, mai più andate via, di chi fuggì, ma paure invece preziose nella memoria degli slavi, perché esse furono lo strumento efficace dell’implacabile pulizia etnica e culturale da loro condotta ai danni della popolazione autoctona italiana. Comparando la storia di altri esuli o figli di esuli a quella della famiglia “Mario Antonelli e Giocanda Bresciani”, e quindi alla mia storia, di me, immigrato canadese, non posso non avvertire un profondo senso di solitudine. Ricordo che mia madre, dopo la lettura di “La foiba grande” di Carlo Sgorlon, mi disse perplessa e delusa: “Sì, parla del nostro esodo e delle foibe, ma per noi le foibe sono state un’altra cosa…”
Scusandomi se allargo un po’ troppo il discorso su di me, vi dirò che in Canada non vi è una sola persona che mi abbia conosciuto in Italia prima del mio espatrio avvenuto a 25 anni di età, da Napoli. Ed oggi sono vecchio e la solitudine si è accresciuta. Quando leggo degli ex convittori del convitto Fabio Filzi del dopoguerra (mio padre fu l’economo del Fabio Filzi di Pisino), a Grado prima e poi a Gorizia, non posso non invidiare questi fortunati che trascorsero gli anni giovanili tra coetanei della loro stessa origine, e che da allora si sono rivisti un gran numero di volte e che, età permettendo, si tengono ancora oggi in contatto. Da convittore assistito dall’ente “Post-Bellica”, io trascorsi 5 anni a Teramo, e da allora, pur avendo cercato di ristabilire alcuni dei contatti di quel tempo, non vi sono mai riuscito. Non ho mai più rivisto né i compagni di scuola né i convittori di quel tempo, i quali provenivano da ogni parte d’Italia.
Vedo che mi sono lasciato andare ai sentimenti e ho rivelato il mio senso di solitudine e di distanza, dovuto al fatto che la mia storia personale è troppo particolare perché io riconosca che forse vi sono altre voci simili alla mia. Ma la mia storia resta comunque legata inestricabilmente ad una storia molto più ampia, una storia comune, la storia dell’esodo, che m’inserisce in quel quadro collettivo e in quella ricca, ampia identità di cui il nostro Autore disegna le grandi linee e i contorni.
Una sofferta estraneità
In questo ampio racconto storico io ho potuto ritrovare talvolta, con effetti di sublimazione quasi psicanalitica, elementi antropologici e culturali, giudizi, sentimenti che mi hanno fatto sentire, per un momento, meno lontano e meno isolato; nonostante il mio particolare percorso di vita da esule-emigrato finito distante da quell’identità italiana un po’ da avanspettacolo, quotidianamente presente in Tv e nei giornali. E mi sono sentito innalzato dalla nobiltà del sentire dell’Autore. Il che ha attenuato la mia solitudine, perché in questo suo sentire io ho ritrovato me stesso. E purtroppo riscopro invece, ogni volta che torno in Italia, una mia estraneità non malevola ma anzi sofferta nei confronti persino di coloro che agiscono in seno ad associazioni, enti ed istituzioni, presenti ad esempio a Trieste, e che appaiono ai miei occhi così diversi da me.
Essi compiono un’opera meritoria impedendo che ci si dimentichi di noi. Eppure mi appaiono troppo italiani nel loro “parlare per parlare”, nelle loro strategie di avanzamento personale, nei loro calcoli e nelle rivalità reciproche. Calcoli che li spingono ad essere assai poco accoglienti e solidali con chi giunge da lontano ed è senza santi in paradiso ed appare motivato da puro idealismo. E che di conseguenza conta assai poco per loro. E di fronte al quale – parlo di esperienze da me vissute – si sentono disorientati non riuscendo ad inquadrarlo nei loro schemi mentali all’italiana dove a prevalere, oggigiorno, è soprattutto il rapporto strumentale utilitario.
Carlo Cesare Montani, anima nobile, in questo libro che parla di noi e dei nostri antenati, ha ampliato infinitamente la storia nostra attuale collegandola a realtà antiche e distanti. E quindi ha ampliato anche la mia storia, allentandone in certi momenti i lacci che la tengono stretta ad un passato recente ossessivamente presente, e all’inesorabile avanzare del tempo che la sospinge verso la sua fine.
Un abbraccio difficile
Nella parte che conclude la prima parte, intitolata appunto “Conclusione”, l’Autore ci ricorda che “la storia non finisce oggi” e che occorre prendere consapevolezza “non tanto degli errori commessi quanto della loro incidenza negativa su diritti e interessi nazionali facendone ammenda sia pure tardiva”. È un invito dunque ad “aprire menti e cuori ad un consapevole impegno di pensiero e di azione”. Invito che purtroppo, secondo il mio realistico pessimismo, troverà porte ostinatamente chiuse nel Quirinale, il cui attuale residente, Sergio Mattarella fa una sleale concorrenza – è un mio giudizio – al papa con il suo amore per il diverso e per il suo appassionato internazionalismo ecumenico. Ma troverà porte chiuse anche in Parlamento dove l’opposizione, qualunque sia il partito al governo, si batte con accanimento per poter mandare a casa gli “irresponsabili” del governo ed occuparne le poltrone.
Per Carlo Cesare Montani, l’abbraccio auspicato dal Tommaseo tra il mondo latino e quello slavo potrà avvenire con una “rilettura della storia in chiave oggettiva e dalla comune accettazione del patrimonio di memorie, tradizioni, diritti ed attese che essa comporta”. Ma occorrerebbe anche che gli italiani, Mattarella in testa, chiudessero il capitolo degli odi civili, invece di acclamare ritualmente in un crescendo alla Ravel, spacciandola per Liberazione, la tremenda sconfitta dell’Italia, che ha causato la perdita di parti preziose del suo territorio e il tragico esodo di noi, nativi di quelle terre. E girassero finalmente quella buia pagina di storia del secolo scorso, riconoscendo il dolore dei vinti e ricreando l’unità degli italiani. Impresa, questa, purtroppo impossibile.
Claudio Antonelli (Montréal)
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