9 Ottobre 2024
Storia

VENTENNIO MORTALE 1947-1967: anniversario del Trattato di Pace

articolo del 1967 da “Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli”, Edizioni Minerva, pagg. 220-225

            «Si tratta di liquidare due diverse partite: l’abbattimento di Mussolini e del Fascismo, e la conclusione di un accordo con gli anglo-americani! La prima partita è attiva… la seconda è invece passiva: la conclusione di un accordo armistiziale con quelli che sono oggi i nostri nemici sarà opera difficile e creerà responsabilità penose per i suor negoziatori, Dunque, poiché la partita attiva è ormai liquidata, non resta che la partita passiva, e sarebbe un errore politico per i nostri uomini accettarla.,.».Alcide De Gasperi impartiva questi astuti consigli a Ivanoe Bonomi, il 25 luglio dal 1943. La sorte volle che toccasse proprio a lui di andare a Londra e a Parigi per esser «sentito» dai vincitori e perorare, come seppe e poté, la causa dell’Italia vinta.

    Toccò a lui d’essere accolto all’aeroporto, senza neppure gli elementari riguardi dovuti alla suo carica, da un poliziotto inglese che lo trattò come un «immigrante» sospetto, e neppure gli risparmiò, con la crudeltà stolta di cui l’Inghilterra è maestra, la rituale domanda se intendesse cercarsi un lavoro in Gran Bretagna. A Parigi trovò gente che ormai lo conosceva e diceva dì stimarlo; ma nessuno lo salutò, tranne Bidault, che vi fu costretto dall’ufficio di presidente, e dové presentarlo agli altri. «Il primo ministro italiano parlò con tatto, ma con dignità e coraggio», scrisse James Byrnes, lo scialbo Segretario di Stato americano: «Quando lasciò la tribuna per tornare al posto assegnatogli nell’ultima fila, scese nella navata centrale della sala silenziosa, passando accanto a molte persone che lo conoscevano. Nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione; mi sembrò inutilmente crudele».

     Quell’inutile crudeltà servì, tuttavia a qualcosa, se tolse agli uomini della nuova dirigenza democratica ogni residua illusione sui sentimenti dei vincitori. Chi aveva creduto alle ipocrite distinzioni fra Italia e Fascismo usate dalla propaganda di guerra quando si trattava di indurci a gettare le armi, ebbe motivo per amari ripensamenti; come Benedetto Croce, che aveva fatto delle ciance di radio Londra un articolo di fede e di lì a poco, discutendosi al Senato la ratifica del Trattato, uscì nel grido famoso: «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte». Sono passati vent’anni,da quella mattina del 10 febbraio 1947 in cui il marchese Antonio Meli Lupi di Soragna emerse dalle nebbie della burocrazia nazionale e rimase sotto i riflettori della grande storia per dieci minuti, quanti ce ne vollero a firmare tutte le pagine di un trattato maligno e in gran parte inutile. Lasciò su quelle pergamene il sigillo della sua famiglia, con l’albero e il lupo, perché lo Stato che si piegava alla volontà dei vincitori non aveva ancora un sigillo suo.

    Fu la pace dei piccoli, dei furfantelli minori. La Germania mancava, gigante atterrato, le sue spoglie eccitavano appetiti e timori troppo grandi per potersi sistemare su un solo tavolo. Erano con noi Finlandia e Ungheria, Romania e Bulgaria; tutti di noi più piccoli, ma già spartiti, come noi, nei due campi opposti in cui i vincitori si dividevano. Noi qua, e loro di là, e tutti già intenti ad imparar la lezione: ossia, a ragionare come i rispettivi vincitori, d’occidente e d’oriente. Dovemmo a questa divisione provvidenziale qualche stracca benevolenza. Nessuno dei vincitori maggiori era nostro diretto confinante; né la Francia, né la Jugoslavia furon ritenute degne di soddisfazioni estreme, fossero pure a nostre spese. Ci fu lasciata la Valle d’Aosta, si trovò la scappatoia per lasciarci Trieste. Non parve tanto grande l’odio, quanto il disprezzo. La menzione dei «servigi resi alla causa degli alleati», dopo il 1943, se non ci tolse l’umiliazione, ci camuffò da malfattori contriti.

    Nostra sola fortuna fu che ci punissero con i castighi di trent’anni prima. L’unico vero dispetto, alla luce dei fatti, fu lasciarci la Somalia, dove dovemmo sperperare miliardi a benefizio di una delle più inutili repubbliche dell’Africa odierna. Non ci divisero in due o tre tronconi, non ci amputarono di immense estensioni territoriali. Lasciaron sfogare la Francia in due o tre stupidi morsi al nostro confine occidentale. La ferita ad oriente fu più dolorosa; ma se si pensa che fu tagliata da mani avvezze a maneggiare immensi spazi senza storia, c’è da meravigliarsi che non sia stata più aspra. Non ne facemmo una tragedia nazionale. Anzi, il Paese unanime fece di tutto per non accorgersene. Non sapemmo neppure far posto fra noi a duecentomila profughi, mentre la Germania rasa al suolo ne accoglieva dieci milioni. Ce li togliemmo dai piedi e dallo sguardo, come capitava: nei campi di raccolta o, ancor meglio, verso il Canada e l’Australia. L’Italia era ridotta a se stessa, con le sue sole forze, nei suoi confini rosicchiati.

   I danni e i disastri della “guerra fascista” ci appaiono modesti. Non per la pietà dei vincitori, ma per la loro cecità. Eravamo ridotti al punto di partenza, perché tutta l’Europa era ridotta al punto di partenza.

   Le sole sconfitte significative furono quelle del Terzo Reich in Europa, e del Giappone nel Pacifico. Inversamente, le sole vittorie di qualche importanza furono quelle degli Stati Uniti e della Russia Sovietica. Sconfitte e vittorie di questi quattro protagonisti dettero, sole, il tono degli eventi. Le vittorie dell’Inghilterra e della Francia, la disfatta italiana restarono fatti vuoti e inerti, vicende di comparse, destinate ad identificarsi, alla lunga, nel grigiore di sorti assai simili.

   Quanto a noi, v’è una puntualità di ritorni, nel nostro destino e nelle nostre illusioni, che tinge di comico anche le più tragiche scelte. Guardate oggi: dopo cinquant’anni da Caporetto si aprono i cassetti che contenevano ì verbali segreti delle sedute della Camera; ne escono i rimpianti (in pieno 1917!) sulle illusioni di Salandra e di Cadorna di una guerra breve e già decisa, di una vittoria rapida e sicura. Venticinque anni più tardi, nel 1940, c’eravamo daccapo con un’altra guerra breve e la vittoria sicura. C’ingannammo, sulla durata, tutt’e due le volte. E peggio c’ingannammo, la seconda, anche sulla parte destinata a vincere. Tentammo allora di rimediare, mutando fronte a metà, strada; ma era tardi. E così accadde che le nostre speranze rimanessero deluse per ben due volte nello stesso conflitto: la prima, quando Mussolini aveva sperato, con la “guerra parallela”, di rubare a Hitler un pezzo della sua vittoria, che poi non venne; la seconda, quando i successori di Mussolini cercarono, con la “cobelligeranza” e la “resistenza”, di rubare agli alleati un pezzo della loro vittoria su di noi, ma questi non si lasciarono derubare. Era troppo tardi per scommettere sul vincitore, il settembre 1943.

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  Resta la guerra dei comunisti. Dopo vent’anni, anche questa ci appare in una luce diversa. Nella insolente vanità con cui i trionfatori interni han continuato a pavoneggiarsi d’una vittoria non loro, difficilmente riconoscerete un tratto di storia universale; è piuttosto l’esito solito e scontato di antichissime nostre lotte civili: è l’Italia guelfa, municipale e democratica. clericale e comunista da sempre, che castiga le sue minoranze ghibelline, i suoi sognatori senza i piedi sulla terra, senza un solido appoggio nelle reali forze; eppure persuasi, per antica esperienza, che l’Italia savia e con i piedi per terra è l’Italia peggiore: è l’Italia di oggi, perché è quella di sempre.

    È l’Italia che cessa di partecipare alla grande storia, e beata poltrisce sulle glorie, le storie e le ambizioni dei suoi mille municipi, delle sue cento contrade. È l’Italia indaffarata e laboriosa degli individui, ma priva di sue aspirazioni e speranze, che si contenta di sonnecchiare all’ombra della Santa Sede, sempre più invadente e più avida di cose e prerogative materiali, via via che la luce del suo magistero spirituale si spegne,

   L’Italia che noi abbiamo oggi non è quella che fu prodotta dalla guerra fascista. È l’Italia di vent’anni di pace democratica, vero bilancio da fare è il bilancio di questo ventennio mortale e asfissiante. Guardatevi intorno. Non voglio ripetere, con generico e risaputo esercizio retorico, il panorama di questo Paese disfatto, bacato da un improvviso benessere, contro cui non ha saputo neppure elaborare i necessari antidoti.

   Non manca la libertà. Ma la libertà vi è priva di senso e di scopo, perché non vi si afferma alcuna grande idea, non vi si educa alcun carattere. In vent’anni, da questo popolo, non è sortita nessuna, si ricordi bene, nessuna figura superiore, in qualsiasi campo: non vi è nata alcuna idea, alcuna grande opera artistica, o scientifica, o letteraria, Non vi è stata una sola luce di conquista individuale o collettiva che ci abbia meritato l’orgoglio nostro e il rispetto altrui. Che gli scandali «non fanno più notizia» è ormai un luogo comune nelle redazioni. L’ammirazione per il “dritto” che ruba alla collettività non è neppure temperata dal giusto sdegno del derubato consapevole. «Gli italiani ridono della vita; ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione… Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci», scriveva Leopardi. Guardatevi intorno. Questa indifferenza cinica è il solo sentimento collettivo di cui un popolo di cinquanta milioni di anime sia capace. Piccoli appetiti individuali di godimento o di guadagno, sono gli unici incentivi all’azione. Che lo Stato non esista più, è un altro luogo comune: eppure, sulle sue rovine pascolano due milioni e trecentomila pubblici dipendenti; esercito famelico e per lo più inerte, che tuttavia tende ad accrescersi degli altri che vi si aggiungeranno in massa quando anche le regioni saranno istituite. Le giovani generazioni fanno, già a vent’anni, il calcolo delle pensioni che toccheranno dopo carriere determinate, fin dai principio, dalle probabilità di guadagno.

    L’Italia mutilata dalla sconfitta seppe almeno inginocchiarsi, vent’anni fa, a Roma, sull’altare della Patria; a Milano suonarono le sirene in segno di lutto… Una fragile donna italiana, seppe impugnare un’arma e abbattere il simbolo vivente del vincitore che opprimeva la sua città. Ci fu un Benedetto Croce capace di invocare in Senato un gesto di ribellione e di volontà collettiva, quando affermò che non si doveva ratificare il trattato di pace: «Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra».

   Povero vecchio. Sapeva che la storia è una creazione costante, in cui nessun verdetto è definitivo, sol che i popoli che ne sono colpiti sappiano almeno volere qualcosa. Il nostro, no. La pace lo restituì alla vacanza di sempre, a un sonno secolare. E in quello si crogiola, nella sola speranza di non svegliarsi mai più.

   Non crediate che ci mancassero i compiti. Un Mediterraneo reso vuoto di antiche forze, da cui Inghilterra e Francia dovevan sgomberare a furia, ma agitato da convulsioni nuove, poteva essere un campo d’azione pacifico, per un popolo che non avesse perduto il rispetto altrui, e quello di se stesso. Ma nessuno ci volle, perché nessuno ebbe fiducia in noi. E non perché avevamo fatto la guerra, ma per come l’avevamo finita. L’arte di sopravvivere eludendo con la furberia i disastri si paga. Riflettiamo oggi se non sarebbe stato meglio combattere fino in fondo, soccombendo, alla fine, alla forza altrui, invece che pentirci a metà e metterci a leccare le ginocchia dei vincitori. Avremmo sofferto di più alla partenza, ma non avremmo perduto il rispetto degli altri. A vent’anni dalla nostra pace, diamo uno sguardo ai nostri alleati di allora: quello europeo, deluso e ingannato, è tuttavia ben vivo; il rovello dell’unità patria gli ha impedito di corrompersi del tutto nel benessere; la sua tragedia lo tiene in piedi, gli dà scopo per esistere. Diviso, a sua volta divide i nemici. E la Russia non parla se non per esprimergli odio e timore che sono, insieme, segno di apprezzamento e di rispetto. Il Giappone è ritornato la prima potenza dell’Asia.

   E vero, amici. La guerra “fascista” riuscì appena a ferirci. È questo Ventennio di pace che ci ha spento. Come popolo, come nazione.

Piero Buscaroli

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