La nuova frontiera della “resistenza” davanti al crollo dell’egemonia culturale comunista
Con la caduta del Muro di Protezione Antifascista di Berlino del 1989 non è venuta giù soltanto la maschera che copriva – per chi non voleva vedere – il vero volto del comunismo; non sono solo crollati sistemi che si reggevano sulla violenza e sul terrore; è venuta meno anche una oligarchia culturale che da decenni faceva il bello e il cattivo tempo in tutti i Paesi, dominando incontrastata – incassando i corrispettivi lauti stipendi – nelle università, nelle scuole, nelle redazioni dei grandi mass media. Con l’arroganza, la supponenza, la “superiorità morale”, che gli era propria.
Il Muro di Protezione Antifascista, venendo giù, ha permesso lo straripare delle “acque della libertà” e tutto quello che per decenni non si era potuto dire – se non in ristrette cerchie di “appassionati”, e a loro rischio e pericolo – cominciò a “fluttuare” senza più freni. Per la prima volta si poté parlare con una certa libertà dei crimini della Resistenza – con tanto di vittorie giudiziarie (cfr. il caso Gianfranco Stella per i fatti di Codevigo) –, delle foibe, del ruolo del comunismo in Italia.
I “professoroni” (con stipendio statale) – quelli che, poi, beffardamente rideranno alla notizia delle bombe Molotov lanciate contro la casa di Renzo De Felice – rimasero scioccati ed ammutoliti, spinti ai margini della società, come le spie della Stasi in Germania Est dopo la fine del regime comunista. Crollava un “mondo” che aveva permesso le loro carriere e tutti i loro sproloqui ideologici sul “sol dell’avvenire”, la Resistenza e l’antifascismo, seduti nei comodi salotti della borghesia di sinistra, quelli dove, tra una tortina al caviale e una scampanellata alla domestica, si progettava la lotta armata o si coprivano i compagni con le mani sporche di sangue innocente: una storia che unisce l’assassinio di Giovanni Gentile alle Brigate Rosse.
Un nuovo vento di libertà sembrò allora rivitalizzare la cultura italiana. Simbolo importante, ad esempio, fu il successo di Giampaolo Pansa, uomo di sinistra che non ebbe il timore di riprendere gli studi e le inchieste – da sempre censurate e messe al bando – dei giornalisti de “L’Ultima Crociata”, di Giorgio Pisanò e Gianfranco Stella, facendole conoscere al grande pubblico.
Tuttavia, non si capitalizzò la libertà ottenuta. Non si posero le basi per una convivenza, per un’accettazione della storia degli “altri”, per la tanto sbandierata pacificazione tra gli Italiani. Del resto, chi era al Governo in quegli anni, non era minimante interessato ad operazioni culturali del genere, soprattutto se riguardava un periodo storico che avevano appena rinnegato e con il quale non volevano più avere nulla a che fare. E il vento, piano piano, calò. Il disinteresse prese il sopravvento e i “professoroni”, che in questi “anni bui” – per loro, ovviamente – erano rimasti atterriti, aggrappati alle loro cattedre o, meglio, nascosti sotto le loro cattedre, rialzarono pian piano la testa e tornarono, dapprima defilati, poi con la solita arroganza e supponenza – alle quali si aggiungeva anche la rabbia – a pontificare sulla storia della nostra Nazione.
Tuttavia, i bei tempi sono finiti, e sempre più spesso si assiste a dei soliloqui vanagloriosi, cui nessuno, in realtà, dà retta, se non nello stretto circolo della casta politica al potere – di sinistra, come di destra – che, in questi soliloqui ideologici, trova l’alibi della sua incapacità.
Il Muro di Protezione Antifascista non c’è più abbiamo detto e allora a sinistra si sono inventati i “gendarmi della memoria”, veri e propri guardiani dell’ortodossia ideologica, che bollano come “revisionisti” tutti coloro che, documenti alla mano e analisi logica nella mente, mettono in discussione ciò che è stato scritto sul comunismo, sulla Resistenza e sull’antifascismo in generale. Dove revisionista non è inteso nell’accezione propria del termine, ossia, defelicianamente, come colui che revisiona quanto è stato detto e scritto alla luce di nuove documentazioni – cosa che devono fare tutti gli storici a prescindere –, ma in senso ideologico: colui che osa mettere in discussione la “verità assoluta del partito”. E, si sa, i revisionisti nei regimi comunisti erano eliminati fisicamente…
Il fatto che la storia venga fatta con i documenti dovrebbe essere accettato da tutti, come la massima che “chi fa antifascismo, non fa storia”. Invece, sempre più spesso, ci si trova davanti ad una inversione dei termini, per cui i documenti si utilizzano sono se danno valore alla visione ideologica della storia imposta dai comunisti ai “bei tempi”. In caso contrario, non valgono nulla e vengono ignorati. Si ricordi come, negli anni ’60, venne inventata la storia della Resistenza italiana, utilizzando solo le fonti orali partigiane – soprattutto, se non esclusivamente, comuniste – e negando qualsiasi valore ai documenti di Questure, Forze Armate, Prefetture, ecc. conservati negli Archivi di Stato perché fonti… “fasciste”! In realtà, semplicemente perché sbugiardavano quanto cantavano i partigiani a destra e a manca. L’invenzione di Bella Ciao come canto partigiano è di questi anni…
Ricordo ancora, e mi scusi il lettore se cito sempre questo episodio, quando scrissi la storia della città di Nettunia (cfr. P. Cappellari, Nettunia, una città fascista 1940-1945, Herald Editore, Roma 2011) e un caro amico, improvvisamente alteratosi, mi fermò per strada, rossiccio in viso, domandandomi perché mi ero permesso di scrivere cose che sbugiardavano quello in cui lui aveva sempre creduto. Risposi semplicemente che io non avevo scritto nulla, ma che mi ero limitato solo a pubblicare dei documenti, cosa che nessuno in 70 anni aveva mai fatto. A questa constatazione, alzò la voce e disse: «Io non credo in quello che tu hai scritto e se anche mi facessi vedere dei documenti che lo provano… io non ci credo lo stesso!».
Qualcuno sorriderà nell’immaginare questa scenetta, ma dobbiamo invece essere terribilmente seri. Perché sono questi personaggi, accecati da una visione ideologica della realtà, che pretendono di stabilire chi deve parlare e chi no, chi può scrivere e chi no, cosa può essere detto e cosa no, cosa può essere scritto e cosa no. E chi sgarra – visto che non si può annichilire come ai “bei tempi” – almeno lo si trascini in tribunale… per vilipendio, per apologia… per qualsiasi cosa. Basti che paghi… e stia zitto!
E se non si può colpire direttamente lui, perché ha le spalle troppo “larghe”, allora si colpiscano coloro che gli sono vicini, anche se non c’entrano nulla: punire comunque, fargli “terra bruciata” intorno. Di esempi ce se sono decine e decine, purtroppo.
Oggi, comunque, è difficile arrestare la diffusione di nuove interpretazioni, nuovi libri, nuove ricostruzioni. È quasi impossibile, legislazione speciale a parte, fermare il revisionismo storico.
Allora, davanti a queste difficoltà, è nata una nuova schiera di “intellettuali militanti” che tentano di controbattere, colpo su colpo, libro su libro, le novità storiche che sbugiardano le ricostruzioni partigiane degli eventi.
La tecnica è molto semplice, di ispirazione leninista. Non si va al sodo, non si c’entra l’obiettivo, non si colpisce l’oggetto centrale della discussione: una strage partigiana è una strage partigiana; una violenza sessuale è una violenza sessuale; il comunismo ha fallito e rimane fallimentare; ecc. Semplicemente, si stende una cortina fumogena intorno all’evento da “destrutturare” fino ad offuscarlo, spostando l’attenzione del lettore su dettagli secondari che, alla fine, diventano il vero oggetto della discussione!
Facciamo un esempio pratico. Nel 2019, trovai un documento presso l’Archivio di Stato di Terni in cui i Carabinieri Reali denunciavano, nell’Estate 1944, l’omicidio di una donna da parte di un soldato di colore, nel mentre questa tentava di difendere la figlia da uno stupro. Documento reale, storia reale, con tanto di morta individuata per intenderci. Mettemmo a conoscenza della “scoperta” – sempre tenuta secretata dagli storici locali – l’Amministrazione comunale, perché si potesse iniziare un “percorso della memoria” in ricordo di questa donna. La sinistra, ovviamente, si infervorò e cercò di depotenziare la portata della scoperta. Non sia mai che qualcuno parlasse di “crimini dei liberatori”… Fu così che si allestì una conferenza nella quale – sorvolando sul fatto reale accaduto – si evidenziava che il Consigliere comunale che aveva presentato il documento all’assise aveva parlato di un omicidio commesso da un soldato “indiano”. Una storica aveva scoperto che quel soldato invece era sudafricano. Ecco allora che si polemizzò su questi dettagli, sull’uso non professionale dei documenti, senza parlare della povera donna uccisa che pure era l’oggetto della storia. Insomma, se c’era stato questo “grossolano errore”, figuriamoci sotto cosa ci poteva esserci… Come dare affidabilità a questa gente?
Della vittima non si parlava più, mentre montava l’indignazione per questo errore veniale…
La poveretta ammazzata semplicemente scomparve dalla scena.
È la stessa cosa che è avvenuta con l’agghiacciante lettera di Togliatti sulla sorte da riservare ai prigionieri italiani in Russia. La lettera era vera. E vere erano anche le parole e le intenzioni del Segretario del PCI. Eppure, la sinistra italiana insorse perché il documento non era stato correttamente tradotto, perché mancavano alcune virgole, perchè “Hegel era aggettivato male”. E così che la lettera divenne “falsa” e scomparve dalle cronache (cfr. F. Bigazzi e D. Fertilio, Dezinformacija all’italiana, “Storia in Rete”, n. 191, Giugno 2022).
Sempre la lezione leninista insegna che per “destrutturare” la tesi revisionista, oltre a non entrare nel merito dell’oggetto centrale della questione, bisogna delegittimare l’autore della tesi stessa. Semplicemente, si effettua un dossieraggio stile anni ’70 sul soggetto da colpire, e poi si bolla l’autore come “fascista”, magari ridicolizzandolo. Un fascista non può che essere un falsario professionista, ci dicono, una persona malvagia alla quale non dare nessun credito. Figuriamoci, poi, se viene raffigurato come “pasticcione” e “ridicolo”. La stessa tecnica, guarda caso, usata durante i processi del dopoguerra ai partigiani. Gli Avvocati difensori non cercarono mai di dimostrare l’innocenza dei propri assistiti, ma solo di diffamare la vittima, scavando nella sua vita personale, dimostrando che, in fin dei conti era solo un fascista e, quindi, se non se l’era meritata quella fine, almeno se l’era cercata e i partigiani assassini non potevano essere, di conseguenza, imputati di nulla, avendo agito a fin di bene…
Oggi, Claretta Petacci – il cui assassinio rimane un boccone amaro per l’antifascismo – è dipinta come “la nazista”. Quindi, la sua morte è più che giusta?
Del resto, questi “gendarmi della memoria” ragionano per schemi a compartimenti stagni. Se in “casa loro” ogni dissidente era messo al bando quando non eliminato fisicamente, si dà per scontato che anche in “casa degli altri” funzioni così. Nessuna considerazione morale. Agire così è giusto, perché si è sempre fatto così. Si pensi alle uccisioni di compagni durante la Guerra di Spagna o il Terrore staliniano o alle purghe titine e controtitine. Tutto ciò fu fatto con un cinismo e con una meticolosità che lascia sconcertati, tanto che non si erra nell’affermare che i maggiori uccisori di comunisti italiani nel mondo… sono stati i comunisti stalinisti. Per i “gendarmi della memoria” si è agito correttamente, altro non poteva essere fatto. Così, del resto, “fan tutti”. Così nascono le leggende sulle uccisioni di Igino Ghisellini, Giovanni Gentile o Aldo Resega, che sarebbero stati assassinati dagli stessi camerati perché personaggi non allineati. E questo nonostante che i partigiani avessero decretato la loro morte, l’avessero eseguita e se ne fossero gloriati. Una vigliaccheria morale che è giunta fino ai nostri giorni, si pensi al caso del duplice omicidio dei fratelli Mattei, arsi vivi in un attentato antifascista portato a compimento dai rampolli della borghesia comunista romana, ma che ancor oggi viene spacciato da qualcuno come maturato durante una faida interna tra camerati…
Oggi, l’attività antirevisionista degli intellettuali militanti di sinistra si manifesta ovunque ci sia un cedimento della narrazione antifascista. Sono noti i tentativi di giustificare le foibe depotenziandole ed inserendole in un quadro più ampio di “oggettiva responsabilità fascista”, cosa naturalmente falsa (cfr. P. Cappellari, Jugonegazionisti, giustificazionisti, ignorazionisti, “L’Ultima Crociata”, a. LXXI, n. 2, Febbraio 2021). Vanno di moda i dossieraggi su Norma Cossetto o Giuseppina Ghersi – simboli della brutalità dell’odio antifascista – le cui storie sono passate al setaccio dai “necrofori dalla stella rossa”, evidenziando le incongruenze di alcune testimonianze, la mancanza di documenti e quant’altro. Del resto, non ci sono foto, non ci sono filmati… vero?
Insomma, la solita cortina fumogena leninista, ispirata dalla menzogna di parte, alla dezinformacija di sovietica memoria, che lungi dal chiarire cosa in realtà avvenne, getta il seme del dubbio, della polemica, per giungere ad offuscare la storia – vera – delle vittime dell’antifascismo, che diventano, come per magia… vittime del fascismo: “Quel fascismo che all’epoca ne provocò la morte… e oggi le vuole sfruttare per la sua becera propaganda!”.
Facile gioco per chi ha decenni di egemonia culturale (leggasi: stipendi e coperture varie) alle spalle, mentre la memoria delle stragi compiute dai “liberatori” è stata tenuta nascosta, negata, giustificata, conservata solo nei cuori di chi, con coraggio fuori del comune, ha mantenuto vivo il ricordo. Però, non era laureato in lettere e filosofia affermano gli intellettuali militanti… e monta la cortina fumogena.
Coloro che oggi, con l’arroganza e la supponenza che gli sono proprie, ammantati di una inesistente superiorità morale, giustificano e depotenziano i crimini dell’antifascismo, sono gli stessi che li commetterebbero di nuovo se potessero. Ma non possono e la rabbia per questa impotenza genera dei mostri che scrivono per darsi coraggio tra di loro, per dimostrare che pur avendo torto… hanno sempre ragione. È vero, qui si esce fuori anche dal leninismo e si entra in piena psicopatologia.
Io me li immagino come quelle giovani Guardie Rosse che giravano le campagne cinesi durante la Rivoluzione culturale di Mao, Libretto rosso in mano, a bastonare poveri Professori e a denunciare perfino i propri parenti non allineati alla “verità del partito”. Io me li immagino, come i Khmer Rossi di Pol Pot a perseguitare chi porta gli occhiali e ad infornare corpi nelle fosse comuni anche dei propri fratelli.
In realtà, sono sempre loro. I mascalzoni del 1945, del 1956, del 1966, del 1975… Sono sempre quelli del “ditino puntato”: “È quel ditino che decreta solo per appartenenza i lodati e i dannati, le opere e gli autori da recensire e da premiare, e quelli da ignorare e vituperare. Ma ora che sappiamo quanto prendevano, come prendevano, dove portavano, da dove copiavano, come si facevano strada, a prezzo di cosa, quel ditino non lo sopporto più. Non voglio vedervi in galera, alla gogna, censurati, ma col ditino abbassato. Non li mettiamo all’indice, ma all’indice voi non mettete più nessuno. […] Erano insopportabili le lezioni col ghigno dei trionfatori, ma sono insopportabili e grottesche le lezioni con la boria dei nobili decaduti, la vanteria dell’élite sconfitta dalla vile plebe populista, che lascia le ultime istruzioni alla servitù e ai parvenu. Non fate più i maestrini, please” (M. Veneziani, Ora finitela col vostro ditino, “Il Tempo”, 23 Marzo 2018).
Ecco, riprendendo le parole di Marcello Veneziani: mettete giù quel ditino, per sempre.
Pietro Cappellari
(“L’Ultima Crociata”, a. LXXII, n. 8, Dicembre 2022)