L’imbecillità è una cosa seria. Non è soltanto il titolo di un saggio filosofico di Maurizio Ferraris, ma una scoraggiata constatazione. Negli Stati Uniti, guida e faro dell’umanità detta occidentale vengono abbattute, sfregiate o danneggiate le statue di Cristoforo Colombo. A Memphis, Tennessee, capitale con Nashville della musica country, nonché patria dell’icona rock Elvis Presley, all’Orpheum Theatre, tempio della cultura cinematografica americana, dopo 34 anni viene tolto dal cartellone Via col vento, il grande film di Victor Fleming del 1939 tratto dal romanzo di Margaret Mitchell con Clark Gable e Vivien Leigh. Pare che lapellicola sia razzialmente scorretta. Il 12 ottobre prossimo, anniversario della scoperta del continente americano, il Columbus Day sarà celebrato a Los Angeles come “Giorno dei popoli indigeni “.Il sindaco di New York, Bill De Blasio, simbolo egli stesso della società multietnica come marito di una donna di colore, anzi di una afroamericana, chiede la rimozione delle statue dello scopritore (invasore?) dell’America, accusate di “istigazione alla divisione ed al razzismo”.
Motus in fine velocior. Questa espressione di origine aristotelica, con cui si usa indicare l’intensificarsi di un’azione verso la sua fine, rende perfettamente l’idea di ciò che sta avvenendo nell’attuale fase di sbriciolamento della nostra società e della crescente deriva autolesionista, autopunitiva e improntata ad un aperto, incontenibile odio di sé. Cupio dissolvi, volontà di autodistruzione, nichilismo. Purtroppo, potremmo continuare a lungo nella descrizione dei tornanti in discesa imboccati da quel che resta di noi. Ci limitiamo a ripetere il monito di un cattivo maestro, il drammaturgo tedesco comunista Bertolt Brecht: brutti tempi, quando si deve ripetere ciò che è evidente. Assistiamo, infatti, all’accelerazione finale della parabola discendente della civilizzazione che diciamo nostra. Nella Scienza Nuova di G.B. Vico vi è un’osservazione che appare il ritratto perfetto del presente: la natura dei popoli è prima cruda, quindi benigna, appresso delicata, finalmente dissoluta. La dissolutezza non richiama soltanto comportamenti sessuali e civili sfrenati, ma si riferisce a ciò che si scioglie o dissolve, come certi iceberg e i ghiacciai minacciati dai mutamenti climatici.
Non vi è dubbio che si tratti di una patologia potente, individuale e collettiva. Riportiamo un brano di un recente intervento di Martino Mora, docente cattolico: “L’odio di sé è oggi una potente patologia individuale e collettiva nell’opulento e nichilista Occidente. Individuale perché si manifesta con l’assunzione di massa di droghe, alcool e altri comportamenti autodistruttivi. Collettiva perché si compiace pubblicamente di questo perpetuo fustigarsi e vergognarsi della propria storia, cercando nell’immigrazione di massa e nella normalizzazione simbolica e giuridica dei comportamenti sessualmente deviati la propria dissoluzione. E’ una dissoluzione scientemente ricercata e desiderata.” L’esito desiderato è “un mondo senza confini, senza patrie, senza limiti, senza identità, senza radici, senza l’origine. Odiano le differenze. Odiano l’origine. Odiano se stessi.” Ciò che avranno, per un’ovvia eterogenesi dei fini (sempre il vecchio Vico!) è la sostituzione della civiltà nostra con un’altra, immune dall’ossessiva volontà di impotenza che caratterizza l’inverno presente. La storia, come la natura, ha orrore del vuoto. Pensiamo all’America reale senza il viaggio di Colombo, divertiamoci con l’ucronia, il gioco di pensare come sarebbe andata se i fatti avessero avuto un corso diverso. Non esisterebbero gli Stati Uniti (d’America, appunto), il continente avrebbe un altro nome, religioni diverse – e dovremmo rammentare, a beneficio delle anime belle, i sacrifici umani e la sanguinaria natura delle civiltà precolombiane – Los Angeles e New York non esisterebbero, lo stesso Bill Di Blasio si chiamerebbe Guglielmo e farebbe il sindaco, democratico, s’intende! di qualche cittadina campanada sostenitore di Vincenzo De Luca, o più probabilmente di Gigino De Magistris. Quindici città solo negli Usa dovrebbero cambiare nome, chissà di che nazione sarebbe capitale Bogotà, la celebre Columbus University non sarebbe mai stata fondata. Fermiamoci qui, per amore di serietà.
Ma il revisionismo storico non si può fermare al 1492 ed al viaggio del grande genovese. Occorrerà, per rigore ed obiettività storica, rimuovere il ricordo dei padri pellegrini e della nave Mayflower che portò sulle coste americane i primi coloni inglesi nel 1620, gettare nella pattumiera e indicare al ludibrio politicamente corretto la stessa indipendenza degli Stati Uniti, la guerra del tè con la corona inglese e miliardi di altre cose, tra le quali, ovviamente, il cristianesimo portato dagli europei. Insomma, si sa come si comincia, non si sa come andrà a finire. Speravamo che certe follie si fossero limitate a Barcellona, dove, con la massima serietà, vogliono abbattere l’obelisco eretto al povero Colombo perché simbolo della Spagna. Il 12 ottobre, da quelle parti, si chiama infatti Dia de la Hispanidad e non sfugge alla furia congiunta dell’indipendentismo locale e dell’oicofobia. Il termine oicofobia(odio per la casa natale), ripreso da Roger Scruton, si è diffuso per l’uso che ne ha fatto Alain Finkielkraut nel suo volume L’identità infelice, a proposito della Francia in cui “l’origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà: l’identità nazionale”. Ha iniziato la chiesa cattolica, purtroppo, con l’abitudine insana di chieder scusa a chiunque per il passato. Se abbiamo sbagliato tutto, se siamo figli, nipoti e discendenti di una banda di delinquenti, ovvio cambiare i nostri principi, ma, in un mondo individualista che ha reciso i legami, non ha senso alcuno dichiararsi responsabili per colpe eventuali commesse da antenati di cui non sappiamo nulla. La razza, la tradizione, la filiazione, scacciate dalla porta con infamia, rientrano dall’abbaino della Giustizia, del Bene, del Progresso. Eppure, siamo sempre disponibili a contestualizzare tutto, giustificare ogni nefandezza poiché “erano altri tempi”, ma non quando la questione riguarda il nostro, di passato. Moralismo d’accatto, e bilancia alterata che pesa eventi diseguali con unità di misura inventate. Auto criminalizzazione sino all’autolesionismo, psichiatrizzazione del dissenso, però morbida, sottile, senza la fosca onestà della repressione sovietica, infine divieto esplicito sino alla rilevanza penale delle parole, dei pensieri, delle idee, dei principi vietati dal Testo Unico del buon cittadino del mondo, civilizzato, mansueto, riflessivo, tollerante, uguale ed aspirante ad ogni conformità.
I sintomi dell’infezione sono molti e diffusi. La società americana è manifestamente interessata da una guerra civile a bassa intensità, strisciante, con esplosioni come a Charlotteville. E’ utile rammentare che gli incidenti gravissimi con morti nella città virginiana sono stati innescati dalla volontà di abbattere la statua del generale sudista Lee, come se la guerra civile del 1861/1865 fosse terminata ieri e si volesse ad ogni costo cancellare storia e sentimenti, suscitando la reazione dei chiamati suprematisti bianchi. Non pochi di costoro sono soggetti poco raccomandabili, ma solo ai bianchi con coscienza etnica e storica è proibito avere idee, convinzioni, miti. L’università californiana di Berkeley sta diventano un luogo dove il nuovo verbo politicamente, etnicamente e storiograficamente corretto viene imposto con pietre e bastoni, oltreché con programmi di studio che marchiano d’infamia gran parte della cultura europea ed occidentale. Molti libri ed autori non vengono più studiati e neppure nominati, ma la rimozione forzosa e la damnatio memoriae non sono diversi dalla distruzione della biblioteca di Alessandria dopo la conquista araba (VII secolo d.C), dall’Indice dei libri proibiti dell’esecrata chiesa cattolica o dall’incendio nazista delle biblioteche universitarie il 10 maggio 1933. Heinrich Heine, nella tragedia romantica Almansor affermò che chi brucia i libri, veicolo di trasmissione della cultura e di amore della verità, infine brucia l’uomo.
Tenuto conto del passato, ovvero l’incendio delle anime del 1968 che divampò proprio da quell’ ateneo, e della circostanza che qualunque idea, moda, suggestione o sciocchezza (spesso tutte queste cose insieme…) proveniente dall’America si diffonde come un’epidemia in Europa, è facile profezia disegnare gli scenari futuri di casa nostra. Gli Usa si stanno rapidamente convertendo in un inferno etnico dove vige nuovamente la legge del sangue, con un popolo diviso in tribù di estranei. Sullo sfondo, le dipendenza di decine e decine di milioni di persone da psicofarmaci e sostanze psicotrope, il culto del denaro, del successo, la diffusione delle armi, la miseria di decine di milioni di uomini, carceri che ospitano alcuni milioni di cittadini, e, in alto, cartelli, lobby ed élite che prosperano sul clima avvelenato e la divisione del popolo. Attraverso il ceto intellettuale, come sempre privo di principi e a libro paga, sono le élite a diffondere un inedito credo a testa in giù in cui il buonismo si fa violenza, nuovo potere, intolleranza, oligarchia impegnata in una crociata invertita del Bene contro il Male. Il nuovo bene è l’antirazzismo assoluto, un antifascismo fuori tempo massimo eppure furibondo, visionario, spionistico, alimentato dai social media. I suoi missionari sono un branco di allucinati talebani laici per i quali è nemico chiunque non si accordi con l’interpretazione della vita, della realtà e della storia fornita dal nuovo Corano della dissoluzione. Sarebbe bastato, per capire ed intervenire, all’inizio degli anni 90, prendere sul serio il grande saggio di Allan Bloom, La chiusura della mente americana, una denuncia lucida e drammatica dei guasti di un sistema scolastico e sociale che unisce un classismo escludente a vantaggio di pochissimi ad autentici spropositi, come la “discriminazione positiva” e “l’azione affermativa”, che obbligano tutte le articolazioni e formazioni sociali a conformarsi ad un sistema invalicabile di quote etniche, religiose, di genere,novità del Terzo Millennio.
La discriminazione, come è ovvio, se beneficia qualcuno, lede interessi, aspettative e diritti di altri, in una spirale in cui la pretesa uguaglianza dinanzi alla legge, gran vanto moderno (ma non è che l’antica isonomia dei greci) si rovescia nel suo opposto, con conseguenze di scontento, rivendicazioni sempre maggiori e sempre nuove, distruzione del legame sociale. E’ il virus liberale progressista, un veleno sottile, inodore e dolcificato alla melassa che si abbatte sull’edificio della comunità e lo corrode da sotto e da dentro, come le termiti con le piante che attaccano. Ora cominciano a cadere alberi secolari, segno del successo del paziente lavorio che sbriciola, taglia le fondamenta, i rami, infine il tronco. Nulla di strano, dunque, se sale la pretesa iconoclasta di distruggere i simboli, abolire i segnavia della civiltà, sciogliere i vincoli, disgregare i miti, quindi abbatterne le immagini tra baccano, rullo di tamburi e applausi deliranti della curva ultrà. E’ sempre così, nelle fasi terminali. Emil Cioran avvertì già negli anni 50 del secolo passato che le convulsioni nostre sarebbero state lunghissime, come grande, potente e pervasiva è stata la civiltà europea, di cui l’America è figlia.
Ogni nuovo ordine si è fondato sulla fine di quello precedente, e il criterio morale dell’equivalenza assoluta, dell’identico obbligatorio, dell’equipollenza delle civiltà è quindi ridicolo ed antistorico prima ancora che errato. Prendendo alla lettera le idee (idee, parola grossa…) dei nuovi iconoclasti, essi per primi dovrebbero rifiutare la lingua inglese come simbolo di imperialismo ed oppressione, e, di passo in passo, esigere lo scioglimento degli Stati Uniti, creati per incorporazione successiva e conquista armata dei territori ad Ovest della costa atlantica, meta dei Pellegrini e battezzata, orrore, Nuova Inghilterra. Ci fu una lunga stagione storica in cui lo slogan “Vai all’Ovest giovanotto” mosse milioni di uomini e donne, i pionieri dei film dell’epica western. La nostra proposta a Di Blasio ed agli indignati a stelle e strisce è di nominare Toro Seduto, il vincitore di Little Big Horn, presidente degli Stati Uniti alla memoria, gettare nella pattumiera della storia il presidente Monroe (“L’America agli americani”, cioè agli statunitensi), Woodrow Wilson che invase l’Europa nel 1917 ed il criminale Truman, l’uomo che scaraventò non una, ma due bombe atomiche sul suolo di una nazione sconfitta. Sin troppo facile condannare, conformemente alla leggenda nera alimentata dai colonizzatori “buoni” anglo americani, la conquista spagnola e portoghese del Nuovo Mondo, incoraggiata dalla Chiesa cattolica che, attraverso il trattato di Tordesillas del 1494, benedisse e divise i futuri domini e le scoperte dei regni iberici. Ma così va il mondo, dovunque e da sempre, e la volontà di impotenza- così abbiamo definito l’attitudine europea, occidentale e bianca – ha un’anamnesi precisa, diagnosi chiara, prognosi infausta. Allan Bloom, suggerendo inascoltato e deriso il ritorno ai classici dell’arte, della musica, della letteratura e della filosofia, nonché la rielaborazione del concetto greco di educazione, la paideia che guida alla ricerca del bene attraverso la ragione, riconosceva una crisi profonda dell’anima occidentale, scoppiata dal 1968 dietro l’apparenza di creatività e liberazione. Una miriade di rivendicazioni ha fatto irruzione nella società civile e nella politica dalle accademie e dalla cultura universitaria (Berkeley, Harvard, l’UCLA, la Sorbona), scardinando un sistema senza proporne uno in cambio. Questo è appunto il segno della dissoluzione: sapere ciò che si vuol distruggere, ma non avere alcun modello o piano alternativo, non possedere alcun progetto preciso è rivolta senza rivoluzione, tumulto che sa solo provocare crolli, abbattere statue e proibire il vecchio mondo detronizzandone i segni.
Tutto ciò si è fatto potere, è l’apparente governo delle opinioni pubbliche manipolate, è divieto della libertà intellettuale, sottocultura di massa, un disordinato magazzino ingombro delle influenze più nocive. Prima tra tutte il relativismo ed un malinteso senso dell’uguaglianza declinato in multiculturalismo, uniti in una confusa intenzione morale. Il nuovo conformismo si fa obbligo, la verità viene negata, chi ha fede in qualcosa non è qualcuno che sbaglia, ma un intollerante da combattere, anzi da cancellare. Il relativismo si fa assoluto, diventa criterio e discrimine, la verità unica ed eterna è l’inesistenza della verità talché ogni cultura o civiltà ha uguale valore, cioè nessun valore, mentre le religioni non sono che opinioni senza rapporto con la conoscenza. L’apertura mentale pretesa e ricercata si è volta nel contrario, come il negativo della fotografia, si è fatta chiusura al sapere, alla realtà, ai fatti, alle differenze. Si vive nel bisogno febbrile di consumare tutto, di comprare sul mercato globale i surrogati delle identità respinte: di qui l’influenza delle mode, la passione per le griffe, i marchi ed i brand, il primitivismo soggettivista di costruire se stessi anche nel corpo, attraverso la chirurgia o i tatuaggi che non identificano più un’appartenenza, ma distinguono, sia pure solo nell’immaginazione orizzontale dei proprietari. L’unico gesto possibile, per coerenza, è dunque distruggere, abbattere, demolire, sino all’estremo contenuto nella frase rivelatrice urlata dal sergente istruttore Hartmanalle reclute nel film Full Metal Jacket: “qui vige l’uguaglianza, non conta un c…nessuno!“ . Nessuno e nulla, principi, valori, idee, credenze, nazioni, arte, storia, statue di navigatori, film proiettati da ottant’anni: detriti da rimuovere. Borròn y cuentanueva, dicono in spagnolo, eliminazione, cancellazione con un tratto di penna e poi un conto nuovo, forse una nuova aritmetica di numeri irrazionali. L’ Occidente ha una nuova ragione sociale, quella di un’efficiente impresa di demolizione. Caterpillar Società Anonima per Azioni, debitamente quotata in Borsa, beniamina delle agenzie di rating, tripla A e previsione positiva (o meglio outlook), sinché accadrà qualcosa di imprevisto, o irromperà qualcuno animato da volontà di potenza, spirito di avventura o semplicemente spinto dalla mancanza di spazio o mosso dalla fame e soffierà via i trucioli sparsi di quella che fu la più completa civiltà della storia umana. Per chi resterà, unica salvezza sarà forse l’io minimo disegnato da Christopher Lasch : per l’individuo in stato di assedio, privato di identità e certezze, la difesa dell’equilibrio psichico impone la contrazione in un io minimo che, per fronteggiare le avversità, si nutre di ciò che trova nella cultura emergente: l’ironia corrosiva e il disimpegno emotivo, la riluttanza a stringere legami a lungo termine e il vittimismo, il fascino delle situazioni estreme, il malsano desiderio di libertà senza direzione.
La domanda drammatica è la seguente: siamo ancora in tempo a fermare un treno che corre a folle velocità verso il burrone? Esistono sufficienti anticorpi, riflessi di vita nella società, nella comunità e nelle singole personalità? Non ne siamo convinti. La nave si è spinta troppo in là, è quasi invisibile all’orizzonte e l’impressione è che sia stato attivato un pilota automatico e a bordo nessun nostromo o capitano sappia – e voglia- invertire la rotta. Una fine ingloriosa per l’uomo bianco, che nega tutto, anche le razze, anzi no, nega unicamente ciò che era suo. Probabilmente, merita di uscire dalla storia, e di farlo nel modo inglorioso e ridicolo di cui siamo protagonisti. Le tragedie che volgono al ridicolo sono le peggiori e le più imbarazzanti. Noi non siamo più in grado di reggere agli urti della storia e neppure a quella della cronaca, in maggioranza non riusciamo più a padroneggiare le nostre stesse esistenze individuali. Manca la forza, la tenuta interiore e più ancora la motivazione. Possiamo abbattere le statue, negare il nostro passato, ma le strade sono ostruite, è un labirinto senza la via d’uscita. Siamo colti da uno sconcertante nudismo spirituale e meta-culturale. Proviamo vergogna non della nostra nudità, come Adamo ed Eva nel giardino dopo il peccato di conoscenza, ma dei nostri abiti, così li strappiamo uno dopo l’altro con una voluttà che lascia attoniti. Ma, nudi, senza riparo, ignari della direzione, non si va da nessuna parte, si muore di freddo, non ci si ripara dal sole, né si può andare Via col vento. Non si può neppure coltivare la speranza ed affrontare il futuro dicendo “domani è un altro giorno”, come Rossella O’ Hara nel film proibito dagli imbecilli di Memphis.
ROBERTO PECCHIOLI
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