8 Ottobre 2024
Filosofia

Virus – Lorenzo Merlo

 

 

La dipendenza – di qualunque genere – è sempre una dichiarazione di debolezza. Ogni debolezza è una mortificazione della capacità creatrice. Non vederlo costringe ad accettare come giusto il mondo che c’è.

 

Serve un dio

La tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo genufletterci; la cui gloria vogliamo celebrare; alle cui soluzioni aspiriamo; la cui verità superiore non discutiamo; la cui mortificazione umanistica non sospettiamo; la cui tossicità non immaginiamo.

Spesso, quando non sempre, è disposizione comune far corrispondere e vivere la tecnologia come progresso. Sarebbe anche vero, se non fosse considerato l’unico, l’autentico e soprattutto il solo.

Nella concezione della tecnologia sono insiti, impliciti, costituenti la quadratura, il giusto e il perfetto, ovvero ciò che manca. Abbracciandola, crediamo di poter indagare il mistero e, un giorno, darne risposta. Il pensiero e il sentimento che avvengono in noi a causa del fideismo scientista di cui siamo protagonisti ne risulta infettato. Una asintomatica ossessione per il modello tecnologico cui dobbiamo tendere ci gonfia l’ego individuale, sociale, politico. In nome del credito nei suoi confronti, non abbiamo incertezze se accodarci esultanti al bene degli algoritmi, dei vaccini, della digitalizzazione: più ce n’è, più tutto sarà facile, comodo ed economico. In sella all’emozione digitale, l’arroganza umana decuplica le atrocità che già in territorio analogico aveva dimostrato di saper commettere.

Il liberismo, l’individualismo, l’edonismo hanno liquefatto i valori comunitari. Il legame con le origini della vita, di cui siamo espressione, non è più affare che conti. Ciò che interessa corrisponde all’egoismo. Abbiamo abiurato a qualcosa di superiore e misterioso a favore di un Io steroidizzato fino alla misura divina. Inconsapevoli di correre al massimo su un binario morto, diamo tutto. Una corsa che ci offre la possibilità di stimare la perdizione in cui viviamo, l’abrogazione di noi stessi e tutto quanto crediamo superfluo al progresso materiale.

“A Oxford, tra gli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, Ruskin mise in pratica il precetto di entrare in contatto con il corpo, guidando squadre di esponenti della gioventù dorata a costruire una strada di campagna: le mani dolenti e callose il segno virtuoso dell’essere in contatto con la Vita Vera” (1).

 

Strategica mimesi

Il potere tecnologico è il più occulto. Ma non è segretato. È diffuso sotto il sole, è distribuito, accolto come manna dal cielo a tutti noi. È in tutte le vetrine, è accessibile a chiunque. Chi vorrebbe oggi rinunciare ai servizi tuttofare della tecnologia? Chi non vedrebbe in quella rinuncia nient’altro che uno stupido arretramento della qualità della vita?

Come ciliegie a maggio, ci sembra un diritto averla e un dovere venderla.

 

Ma quale progresso può esserci in una dipendenza? In ogni tipo di dipendenza vive l’assoluta mortificazione della libertà, della creatività, dell’autonomia, della forza, dell’invulnerabilità degli uomini. Ogni dipendenza vive nutrendosi dell’energia che le diamo e che ci succhia, sottraendola a quella forza e a quella creatività che ci permetterebbero il senso di una vita piena, la consapevolezza di realizzare la nostra natura.

Ogni dipendenza azzera la profondità spirituale. Questa viene prima denigrata, quindi dimenticata, considerata superflua, svuotata di significato. La ragnatela dell’universo dell’uomo, composta originariamente da infiniti filamenti, una volta dimenticata la consapevolezza del legame con l’origine, ha perduto la sua elasticità e potenzialità di farci percorrere l’infinito. Si è ridotta a pochi aridi cavi economici e scientisti, che guidati dalla visione di aver sbaragliato ogni nemico, stanno andando lentamente a chiudersi su se stessi, senza neppure il sospetto che soffocheranno il ragno.

“Tecnici e utenti si preoccupano, giustamente, dei virus che possono intrufolarsi nei computer; mentre vi è una ben limitata coscienza di come lo stesso computer possa comportarsi da virus e intrufolarsi nella società degli umani” (2).

 

Che c’entro io con Mr Burbank Truman?

Ad ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel quale essere fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma solido protagonista al momento degli acquisti. L’assuefazione è tale che non ricordiamo più di fare riferimento a noi, al nostro gusto e alle nostre esigenze. Li abbiamo sostituiti con quelli offerti dai banchi dei commercianti, dalle sirene della pubblicità, dal vero giornalismo – quello disposto a farsi pagare per scrivere menzogne, a seguitare a dormire sereno, anche davanti a scenari Assange.

Ora crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, loro indegne, destabilizzanti succedanee. Ora possono far tramontare il sole e mandarci a nanna. Dire che la guerra è pace e sentirselo replicare in coro dalla moltitudine che crede che questa vita sia effettivamente la vita. Di come stiamo allo show non interessa, se non in funzione di quanto possiamo consumare, votare, costare. Siamo tutti uguali e, nonostante le nostre apparenti libere stravaganze, tutti buoni e protagonisti del nostro personalizzato Truman Show.

 

Pilota automatico

A chi preferisce – leggi sceglie – adeguarsi, adagiarsi protetto dall’effimero scudo dal solito ritornello che è difficile cambiare rotta, che non possiamo farci niente, va fatto presente che non è quello il punto. Che portare l’attenzione sulla difficoltà è la modalità sconveniente per il cambiamento, personale o sociale che sia. Il punto è che la rotta è sempre il risultato di una scelta. E che una scelta è sempre il risultato di una fede.

Tuttavia, c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più che adeguarti, che vuoi fare? Smantellare il sistema è difficile, impossibile.

Legami, credenze e dipendenze sono le esche del Grande Pescatore. La logica di una misura di noi stessi limitata al modesto raggio d’azione dei nostri più immediati ed egoistici interessi rende possibile e vera quell’impossibilità, quel che vuoi fare?

 

Pilota manuale

Cambiare diviene invece assolutamente accessibile e vicino – indipendentemente dalla durata indicata dai calendari amministrativi del mondo – semplicemente mettendosi in cammino, dando l’esempio, lentamente auto-educandosi nel rispetto delle consapevolezze nuove, avendo fede ed esprimendo la propria concezione senza proselitismo positivistico. Quando si osserva che la meta è il percorso stesso, si vede cosa comporta il cambiare e che, condividendo questa formula, si può realizzare il cambiamento. E non servono consigli ed esempi. L’esperienza non è trasmissibile. Coloro a cui dovessero servire non replicherebbero che un modello. Serve invece ricreare, secondo il proprio talento e propria misura.

Se stiamo andando dove non ci piace, è nostra responsabilità cambiare, come lo è se manteniamo lo status quo. Così infatti sarà, quando dirigeremo verso mari non più di plastica, di falso progresso, di opulenza, di miseria spirituale. Mari in cui le reti del Grande Pescatore avranno maglie inadeguate.

Una grande opera comune, una piramide, per la quale forse, nella nostra vita, non potremo che spingere per qualche metro uno solo dei macigni che serviranno per erigerla.

 

Dov’è il problema?

Non sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo; non rispettiamo più il ritmo delle stagioni, con tutto il loro significato per la vita terrena, e crediamo davvero se ne possa fare a meno; ci ammaliamo e diamo la colpa all’età, al virus, all’altro.

Il nostro impegno è avere, imitare e invidiare chi ha di più, sentire un fiotto di autostima davanti a chi ha di meno. Il nostro impegno è donare uno spicciolo al semaforo e proseguire verso i fatti nostri, lasciando che l’empatia con chi sta peggio vada a farsi benedire. Del luogo dove origina l’ingiustizia si occuperà semmai qualcun altro.

Sulla crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a ragionare, a capire, a sentire, per permettere ai nostri figli di avere le doti per vederla ridursi e, alfine, emanciparsene. A noi basta il bonus, la furbata, lo sconto, la quieta infelicità. A tanto siamo arrivati.

ChatGpt, intelligenza artificiale, radio che si accende in automatico all’avvio del motore, guida assistita, uteri affittabili, sesso a gusto non sono che alcuni culmini della tecnologia mon amour, alcuni altari senza peccato, alcune discese verso l’auspicata comodità. Tentacoli dai quali difficilmente ci si potrà liberare.

“Per un numero sempre maggiore di persone l’illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta velina significano povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l’interesse per gli altri” (3).

Ma è solo un assaggio. Insufficiente per cogliere e stimare quale esiziale distanza dalla terra e da noi stessi abbiamo raggiunto; a quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i nostri occhi non lo trovino orrifico, le nostre anime non chiedano perdono e non si avviino a provvedere per riparare al danno compiuto.

Siamo sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del mondo. Imbrattati di falsi valori, non siamo più in grado di sfruttare noi stessi, come se la conoscenza fosse fuori, nei libri e in chi li ha scritti. Vibrisse incrostate di saperi, capaci ormai di vibrare solo al comando di idee infiltrate, ci rendono disponibili a crasse risate al cospetto di un rabdomante. Dovremmo invece evitare d’intossicarle, per tornare a captare la conoscenza presente in noi, nel mondo, per divenirla ed esprimerla. Questo è il problema.

“Dovendo conviverci, l’uomo ha contratto l’abitudine alla tecnica, arrivando a identificarsi con essa e a vederla come l’espressione più significativa del proprio essere nel mondo. Ma ritenere la tecnica la forma più alta dell’espressività umana è una svista imperdonabile, che alla lunga l’uomo verrà chiamato a pagare. Educato secondo una mentalità subalterna alla tecnica, l’uomo ha imparato ad agire più che a essere, a cogliere le esteriorità più che l’interiorità delle cose, a esternare più che a riflettere. Il progressivo prevalere di una mentalità tecnica lo ha portato a considerare tutte le cose, compreso se stesso, come frutto della tecnica, vale a dire di una mente ingegneristica” (4).

 

Il dono

È che siamo polli da allevamento, spiriti obnubilati, merce. I giovani, e non solo, sono soddisfatti di fare la pubblicità per una multinazionale. Per pochi denari precari, svendono i loro migliori sorrisi.

I figli sono deboli. I padri anche. Le prospettive politiche, basate sul diritto e non sulla natura, pessime. Cosa significa essere forti? Non riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la capacità di riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie debolezze, significa saper coltivare le une e affrontare le altre, significa valorizzare quanto sentiamo e ridurre il monopolio della razionalità e della sapienza di ciò che abbiamo anonimamente, replicatamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli interessi personali; significa poter distinguere ciò che fa per noi da ciò che è opportuno scartare; saper rinunciare, senza senso di frustrazione e debolezza. Non invidiare, ma amare chi è meglio di noi per coltivare quanto ci manca.

Compiremo le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la colpa a qualcosa per non esserci riusciti?

 

 

Note

  1. Richard Sennet, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 110.
  2. Enrico Grassani, L’altra faccia della tecnica, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2002, p. 19.
  3. Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, red!, Cornaredo (Mi), 2013, p. 21.
  4. Enrico Grassani, L’assuefazione tecnologica, Delfino, Milano, 2014, p. 23 [Qui Grassani impiega il termine tecnica nella sua accezione di tecnologia].

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