L’essenza del libro è molteplice. E quanto è capace di raccontarci di sé e soprattutto di colui che n’è venuto in possesso. Non basta riconoscerne la funzione legata alla lettura – saggio o narrativa o poesia che sia. Ha una storia e questa s’intreccia con il lettore fino ad esserne parte della sua esistenza. Al limite corregge lo zoppicare della gamba di un tavolo (e non è poco… Emilio Salgari scriveva, flusso ininterrotto d’avventure, su un tavolo dalla tovaglia rossa e traballante). Ad esempio, più volte, ho scritto del mio primo libro – quel L’ultimo dei Mohicani – che mio padre mi lasciò scegliere all’età di otto anni e che conservo con commossa nostalgia di un’infanzia trascorsa protetta e viva. Oppure dei primi tre trovati – per caso o per destino – sui banchi a piazza Fontanella Borghese e che rappresentano l’inizio della mia formazione di vita identità battaglie politiche – I Proscritti di Ernst von Salomon, il Così parlò Zarathustra di Nietzsche e di Robert Brasillach Hanno fucilato un poeta.
Di Panfilo Gentile ebbi a leggere – non ricordo sotto quale suggestione o tramite il suggerimento di qualcuno – Polemica contro il mio tempo, edito da Volpe nel 1965. Libro che dovrebbe essere in qualche scaffale se non, tristemente, abbandonato nel 2009 all’atto del mio trasferimento. Me ne sono ricordato ieri, venendomi a mente scrivere qualcosa su Ereticamente e là dove l’autore affermava, riferendosi alla Repubblica di Platone, come essa fosse ‘l’uomo in grande’. Racconta il filosofo, simile a prestigiatore di poetica abilità, come tre siano le anime, nel mito raffigurate dall’auriga e dai cavalli uno bianco ed uno nero, e nella polìtheia tre siano le caste: quella dei filosofi e dei guerrieri e dei produttori, di uomini impastati dagli dei con lamine d’oro e d’argento e di bronzo.
(M’interessava perché lo stesso Platone definisce questo secondo mito una ‘divina menzogna’ e ciò solletica, va da sé, la mia indole libertaria… Se l’uomo e lo Stato si rappresentano, nel particolare il primo, nell’universale il secondo, espressione di una medesima essenza e questo loro essere è frutto di una menzogna… beh, tanto vale urlare nelle piazze ‘né dio né stato né servi né padroni’ oppure no?).
Quel 1965, oltre mezzo secolo, s’è affacciato prepotente e, con una manata brusca e decisa, ha messo da parte la prioritaria intenzione. Altri ricordi si sono affastellati e hanno soffocato il gusto un po’ spocchioso e trombone delle citazioni – tipico vezzo del professore, arrogante presuntuoso dietro la cattedra, di quella razza di cui ho fatto parte che si assolve consapevole o meno da aver nulla da raccontare di sé poca la ‘vita’, stitiche le emozioni impotenti i sentimenti.
1965: fu l’anno del Congresso di Pescara dove ci si prendeva a pugni con i compagni in spiaggia – qualcuno fece luccicare nella notte la lama del coltello, sottratto alla vicina trattoria – e con il servizio d’ordine del Partito che avrebbe voluto impedirci di prendervi parte. Pochi giorni prima s’era saputo, vicenda usuale d’ogni Congresso del M.S.I., come si fossero messi d’accordo il segretario uscente e pronto ad essere rieletto Arturo Michelini e Giorgio Almirante a guida di Rinnovamento, la corrente d’opposizione a cui noi, in maggior parte giovani, facevamo affidamento. Sentendoci traditi, reagimmo cercando di raggiungerlo sul palco e prenderlo a schiaffi calci e pugni. Fummo fermati e dovemmo risolverci con insulti e sputi e lancio di monetine.
Eppure, con il motto ‘tornare alle origini’, ci eravamo gettati nell’ennesima avventura – ricordo incontri con i ferrovieri alla stazione Termini dove ci sembrò che parlare di socializzazione aprisse una breccia importante. Lo era, nonostante tutto perché da Filippo Corridoni a Giuseppe Solaro questo è il Fascismo ‘immenso e rosso’ che ci appartiene…
Non ci perdonò – ed io, già in carcere, ne so qualcosa personalmente, di cui evito farne menzione perché solo iene ed avvoltoi sono soliti e si dilettano a banchettare sul cadavere. Si defilò per un po’, insegnando storia filosofia al Manieri scuola privata in cui feci la mia ‘bella figura’ all’inizio degli anni ’80 per poi riapparire il 16 marzo del ’68 sulle scalinate di Giurisprudenza, breve apparizione tra l’inizio degli scontri a Lettere, risolti con precipitosa ritirata dei missini, e il loro accanirsi nella facoltà occupata, con banchi e tavole e sedie a volare di sotto. Non fu Giulio Caradonna, ma Almirante l’’anima nera’ di quel mattino con l’intento – credo – di accreditarsi fra ‘i duri e puri’ e predisporsi alla successione di Michelini ormai in fase di malato terminale.
In quel ’65 accadde pure, pur coagulando intorno a sé tanta della realtà giovanile, delusa ma non doma, come Avanguardia Nazionale sciogliesse i ranghi per darsi un percorso di lotta più radicale, si pensò rivoluzionario, di cui Valle Giulia la Rivolta di Reggio e il Golpe del Comandante Borghese furono plastici passaggi. Vi fu la lacerazione sofferta perché alcuni, anche militanti della prima ora, ne vennero esclusi e, in questo caso, tracimarono malumori ingiurie sospetti. Un prezzo da pagare, ci dicemmo. Questa, però, è altra storia, di cui s’è detto e scritto tanto e troppo tra il vero il verosimile il falso…
Intanto mi ero fatto la valigia, a fine estate, e raggiunta Francoforte sul Meno per ritornare a Roma solo l’anno successivo. Mi trovai un posto da Gastarbeiter in un grande magazzino al centro della città, la Hauptwache, dove imparai a fare pacchi e pacchetti per i clienti. Sulla mia permanenza in Germania si sono fatte illazioni, tutte all’ombra di ‘zio’ Adolfo e di un neo-nazismo strisciante, mentre fu solo storia d’amore che ebbe della morte funereo epilogo… Della mia permanenza in Germania ho tratto un paio di capitoli in Strade d’Europa – un fine settimana nella Berlino divisa dal muro alla ricerca dei luoghi raccontati ne I leoni morti (e sempre un libro, opera di mediazione) – o quando, passeggiando lungo il Ring con una commessa del mio stesso magazzino, una moretta con i capelli a caschetto, finì in rissa con dei ragazzotti arroganti e per nulla inclini a sopportare la presenza di uno straniero con una ragazza tedesca. E, una domenica grigia e piovosa risalire un sentiero sperduto verso la cima del monte Taunus. Apparizioni, visioni. Oltre il tempo e lo spazio là dove la mente ed il cuore sembrano raccogliersi in attimi eterni ed infiniti. Ricordi tanti, rimpianti rimorsi rancori a me sconosciuti.
Anno 1965: Panfilo Gentile era nato a L’Aquila nel 1889. Aveva collaborato con Gaetano Salvemini scrivendo sulle pagine de L’Unità, neutralista, era stato fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Voce critica – spirito liberale nelle idee e in politica – si era scagliato sempre contro i fenomeni di massa, compresa la democrazia. Nel 1969 pubblicherà Democrazie mafiose – in clima d’apertura a sinistra e nel vortice della contestazione –, in cui denuncia il dominio di élites atte a conservare potere e profitti. Così come si scaglia contro il disordine nelle scuole, confuso come democrazia, mentre il sapere è sempre ed esclusivo principio selettivo – tra colui che sa e ne fa partecipe colui che ignora.
Anche in ciò un libro, cercato magari per caso, si offre ed offre una finestra sul mondo – quello dei ricordi più intimi quello che ci appartiene e ciò che vale in eredità. Esso salda la storia con le storie. In fondo ci aiuta a sentirci meno soli. E dico ‘solitudine’ perché – là dove separando la condizione dell’uomo dall’ ‘isolamento’, prigione dell’esistenza, eleva noi stessi la natura ed il mistero ultimo a cifra unica e rara.