9 Ottobre 2024
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Vita quotidiana e nostalgia ai tempi del Coronavirus: le riflessioni di Giuseppe Del Ninno – Giovanni Sessa

La pandemia da Covid-19 con la quale ci stiamo confrontando da circa un anno, oltre ad aver determinato la tragedia sanitario-economica che grava su di noi, ha dissolto molte illusioni scientemente costruite dai paladini dall’«intellettualmente corretto». Improvvisamente, al primo manifestarsi del virus, è risultato chiaro che la corsa sfrenata della globalizzazione avrebbe incontrato una significativa battuta d’arresto mentre la conseguente «dittatura sanitaria», imposta in Italia a colpi di DPCM e proclami televisivi, avrebbe rivelato di non essere affatto una risposta allo «stato d’eccezione» sanitario.

Il virus ha rappresentato l’occasione, attesa lungamente dai padroni del vapore, per portare a termine l’espropriazione della sovranità popolare. Le democrazie liberali sono in cammino verso il nuovo regime della governance. Ab origine, infatti, come ben comprese il filosofo Andrea Emo, il sistema parlamentare è stato connotato dal tratto epi-demico (mai espressione fu più appropriata), dal suo volersi sovrapporre al popolo, dal volerlo tacitare. Con la quarantena, con la «reclusione forzata», per fortuna, c’è stato chi ha ritrovato il gusto per l’introspezione e per l’interrogazione critica. Tra questi va annoverato Giuseppe Del Ninno, che ha dato alle stampe, La vita quotidiana ai tempi del Coronavirus, uscito per i tipi di Solfanelli (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it, 335/6499393, pp. 171, euro 12,00). Ha colto nel segno Gennaro Malgieri nel sostenere, nella Presentazione, che questo libro è: «probabilmente il più maturo e sentito tra i numerosi che (Del Ninno) ha scritto […] anche il più bello e il più riuscito stilisticamente» (p. 9). L’autore presenta questa sua fatica quale «diario minimo» dei giorni di quarantena, in realtà è qualcosa di più: un’autobiografia intellettuale e sentimentale, attraversata dalla evocazione del ricordo e della nostalgia. A parere di chi scrive, la nostalgia è sentimento nobile, è incontenibile anelito all’origine: in queste pagine essa assume il volto dei «passati», siano essi i genitori o gli avi dell’autore, oppure i grandi della storia e della cultura d’Italia e d’Europa, coloro che hanno concesso identità al nostro essere nel mondo.

   Il concetto di nostalgia fu teoricamente elaborato dal neoplatonismo, coniato dai primi traduttori dell’Odissea, la cui vicenda si conclude, è noto, con il ritorno di Ulisse ad Itaca. Le evocazioni di Del Ninno non sono, sic et simpliciter, connotate dal rimpianto ma, a muovere dal presente pandemico, sono esposte sul futuro, pensato con i tratti dell’ incipit vita nova. La prosa ha tratto affabulatorio, come è proprio dello scrittore di vaglia e consente al lettore di partecipare emotivamente al narrato.

   Premette Del Ninno: «nel diario si troverà di tutto: sensazioni intime e pubbliche indignazioni, gusti e disgusti per questo o quel libro […] Ci saranno “pensierini” sulla politica e la religione, la famiglia e la scuola, lo sport e l’amore, i giovani e i vecchi» (p. 15). Resta il fatto che la vera protagonista del narrato è la casa. Essa, nei mesi di chiusura, è divenuta cosmo, mondo, come lo fu per Xavier de Maistre nel suo, Viaggio attorno alla mia camera. La casa intesa, quindi, quale luogo della custodia degli affetti e della memoria. L’esercizio scrittorio, suscitato dai «particolari» più diversi, dalle rose sul terrazzo, dalle volute del fumo della pipa nelle serate solitarie e malinconiche, dalle foto di famiglia, è praticato dallo scrittore quale atto di tutela esistenziale, di custodia della vita: atto di speranza in un futuro diverso dal cupo presente. Il libro si pone in sequela di una ben individuata tradizione letteraria: quella della trattatistica erudita dei grandi moralisti francesi come Montaigne, filosofo amato e citato. Del Ninno, infatti, pare aver contezza dell’assunto goethiano: l’universale può essere esperito solo nel particolare. Il grande tedesco rimproverava ad Hegel, lo ricorda Löwith in una pagina memorabile, che meglio avrebbe fatto ad occuparsi del tenace lavoro del suo giardiniere, delle piccole cose quotidiane, piuttosto che della gesta di Napoleone, al fine comprendere il senso delle nostre vite.

   Ecco, allora, la penna di Del Ninno presentarci, con tratto agile, una giornata di guerra nella sua Napoli: «E’una bella giornata: cielo terso, aria frizzante; i miei genitori, entrambi ventenni, si sono fidanzati da poco» (p. 60). Seduti in un caffè, i loro sguardi di innamorati vengono interrotti dall’allarme che li mise in guardia dell’imminente bombardamento: «Non so cosa si dissero, ma la decisione fu di sicuro motivata dal fatto che l’eventualità di morire sotto le bombe non li spaventava, perché l’avrebbero affrontata insieme» (p. 61). La morte da Covid-19, al contrario, uccide l’amore, isola, distanzia gli affetti, è davvero il morire degli «uomini soli» della post-modernità. L’amore, del resto, riempie di sé, e non potrebbe essere diversamente, le pagine di Del Ninno. Innanzitutto, l’amore per la compagna di una vita, conosciuta sui banchi del liceo Visconti, con la quale ha condiviso anche le meste giornate della quarantena, più in generale, poi, quello per la famiglia, per figli e nipoti, la cui lontananza, soprattutto in occasione dei compleanni di alcuni di loro che cadevano nei giorni di reclusione forzata, induce l’autore a pensare al momento in cui avrebbe potuto (forse) riabbracciarli. Per non dire di Athos, cane fedele, divenuto durante la quarantena «capellone», come il suo proprietario. Con lui lo scrittore ha condiviso, meditabondo, alternando momenti di malinconia ad altri di gaiezza, le passeggiate a «non più di 200 metri da casa».

La nostalgia non è suscitata in Del Ninno solo delle persone amate. Da questo diario-autobiografia si evince una profonda nostalgia per i luoghi dell’anima, che tanta parte hanno nel definire il nostro mondo interiore: «quando il cielo è azzurro, avverto il richiamo del Mediterraneo, che per me s’identifica nell’isola di Ischia, dove affondano in parte le mie radici familiari» (p. 123) e nei cui giardini i ricordi del mito trovano sintesi con quelli personali. Oppure per le città amate, Parigi su tutte: «altro luogo del cuore e delle memorie familiari, con le mille passeggiate ed escursioni […] il “pellegrinaggio” laico dei simenoniani come me, da place Dauphine, con la brasserie dove ordinava le sue birre e i panini Maigret, fino a place des Vosges» (p. 65), ma anche per i centri storici di Roma e Napoli. Oltre alla casa e alla famiglia, Del Ninno rivolge le sue attenzioni ad un oggetto, per molti desueto: il libro. Lo fa descrivendo i volumi della sua biblioteca o discutendo di quelli sui quali si è speso e si è formato.

   Oltre alle notazioni politiche e d’attualità, sempre puntuali e informate, rinviamo il lettore all’insegnamento più significativo che è possibile trarre da questo volume. L’esperienza di vita e pensiero del nostro scrittore è connotata da giovinezza spirituale, in quanto egli è rimasto fedele, come insegnò Cicerone nel, Cato maior de senectute, che viene citato, al modello di vita e di ideali che scelse in gioventù. E questo, al tempo del Coronavirus e della post-modernità, risulta essere cosa rara e preziosa.

Giovanni Sessa

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