“Caro papà, se mi denunci o mi fai tornare nel Cile, senza che io abbia combattuto per l’Italia, io mi ammazzo” (messaggio del quindicenne Vittorio Montiglio al padre, al momento della partenza per l’Italia)
di Giacinto Reale
Leggo su un quotidiano che di quel pugno di milioni che Il Governo Letta aveva stanziato per le celebrazioni del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, il prossimo anno, non si trova più traccia, tra aggiustamenti e manovrine.
Forse era da immaginarselo, perché, se la seconda guerra mondiale fu “fascista” per definizione (almeno fino al ’43), la prima si porta appresso il peccato originale di essere stata “voluta” e quasi imposta, a Governi filotedeschi e monarchi titubanti, da Mussolini e dagli antesignani del fascismo per antonomasia, gli interventisti del ‘15 che poi confluiranno, in massima parte, nelle squadre in camicia nera del ’19.
Insomma, per dirla tutta, credo che toccherà ad Associazioni e Gruppi privati farsi carico (anche economico) di ricordare l’avvenimento; do il mio piccolo contributo narrandovi di un personaggio singolarissimo, la cui biografia mi capitò di leggere anni fa, ed ho ora ripreso, per rinverdirne il ricordo: Vittorio Montiglio, “l’eroe fanciullo” come fu definito.
Vittorio, terzo di sei figli (due maschi prima di lui e tre femmine dopo), nasce a Valparaiso, in Cile, il 15 gennaio 1903, da una famiglia piemontese colà emigrata, che coltiva, a dispetto del tempo trascorso e della distanza, forti sentimenti di italianità.
E infatti, scoppiato il conflitto, i fratelli Giovanni (20 anni) e Umberto (18 anni) partono per l’Italia, per arruolarsi volontari. Il primo si guadagnerà una medaglia d’argento (e non andranno a buon fine ben 5 altre proposte), mentre il secondo riceverà una d’argento e una di bronzo, restando ben due volte mutilato.
Vocazione all’eroismo che scorre nel sangue, verrebbe di dire, e che, però sembra escludere, per motivi anagrafici, il più giovane Vittorio, il quale deve limitarsi, nelle strade della cittadina cilena, a furiose scazzottate fanciullesche con i figli di immigrati tedeschi (ed anche francesi, imbevuti, già allora, di sprezzante grandeur).
Un primo tentativo di arruolamento viene vanificato dalla scoperta, in Consolato, della vera età dell’aspirante volontario (siamo alla fine del 1915, non ha ancora 13 anni, anche se di fisico robusto e di altezza superiore alla media), senza che, per questo, Vittorio si dia per vinto. Dopo qualche mese, nell’agosto del ’16, raggranellati i soldi per il viaggio, scappa di casa, raggiunge fortunosamente Buenos Aires, e da lì si imbarca con altri volontari italiani.
Lo aspettano cinquantatre giorni di mare, come mozzo, che non possono non riportare alla mente, all’incontrario, il viaggio di Marco, l’indimenticabile protagonista del deamicisiano “Dagli Appennini alle Ande”, fino allo sbarco a Genova.
Da qui, il fanciullo, che non sa dove andare, e non parla nemmeno un decente italiano, raggiunge, a Casorzo, nel Monferrato, la casa del nonno, quasi novantenne che, con contadino scetticismo, commenta: “Mio figlio finirà per inviare a combattere anche i bambini da latte!”
Bambino forse, ma determinatissimo: utilizzando i falsi documenti che già gli hanno consentito l’espatrio, Vittorio si presenta al Distretto di Casale, e viene arruolato, con destinazione – e qui c’entrano i maneggi del nonno – al “tranquillo” 7° Reggimento di Artiglieria da Fortezza, distaccamento di Canelli.
“Tranquillo” perché lontano dal fronte, ma molto “irrequieto”, perché composto in gran parte da feccia imboscata, che prende di mira il nuovo arrivato, che é “volontario” e addirittura – come il suo incerto italiano denuncia – viene dall’estero, per la smania di “fare la guerra”.
Alla fine, anche per sottrarlo a una giornaliera routine di aggressioni e scazzottature (che, peraltro, rivelano in lui una “grinta” di tutto rispetto) le Autorità decidono di accogliere la sua domanda di trasferimento, e, se non nei “Bombardieri” dove vorrebbe andare, lo assegnano al 3° Reparto d’Assalto Alpino, nella valle dell’Adige.
In tre mesi Vittorio prende parte a ben 43 pattuglie notturne, 12 colpi di mano e 5 azioni “importanti”, guadagnandosi l’incondizionata stima dei commilitoni, e una proposta di medaglia di bronzo che, nella confusione di Caporetto, andrà persa.
Il destino ha, però, in serbo per lui qualcosa di diverso da una pur “ardita” routine trincerista: una Circolare dello Stato Maggiore prevede l’obbligo per tutti i militari del ’99, in possesso di requisiti minimi, di frequentare il Corsi Allievi Ufficiali, e, nonostante la ritrosia a lasciare la prima linea, anch’egli deve presentarsi alla Scuola di Parma, perché i su
oi falsi documenti proprio quell’anno di nascita, il 1899, indicano.
oi falsi documenti proprio quell’anno di nascita, il 1899, indicano.
Mesi anche noiosi, da ottobre del’17 a febbraio del ’18, nei quali si impegna nello studio teorico delle materie “militari”, fino all’assegnazione, come “Aspirante” ad un Battaglione di marcia nel Vicentino. Anche qui, però, gli manca l’azione, alla quale soprattutto aspira, tanto da spingerlo, con inaudita audacia, a scrivere al Generale Giardino: “Io non ho attraversato l’Oceano e due Continenti per stare nelle retrovie. Voglio l’onore della prima linea”.
Viene accontentato: a marzo del 1918 è al 7° Reggimento Alpini, Battaglione Monte Pelmo, dove lo raggiunge la promozione a Sottotenente di complemento, con anzianità 16 maggio 1918, a 15 anni compiuti da pochi mesi, cioè, anche se nessuno lo sa.
Con la promozione, un nuovo trasferimento, l’ultimo questa volta: al Btg Feltre, sempre del 7° Alpini, nel Reparto Arditi, il che gli consente di mettersi in mostra in spericolate azioni notturne oltre le linee.
Ho evitato finora di descrivere nel dettaglio le vicissitudini guerresche di Montiglio, e intendo proseguire su questa strada; chi vuole, ne trova minuziosa elencazione nella biografia che mi serve di traccia per questa nota, e cioè: Atlantico Ferrari, “Vittorio Montiglio, l’eroe Fanciullo”, Roma 1934.
Basti qui dire che il 23 ottobre è ferito da una granata nemica; ricoverato in Ospedale, appena ha sentore dell’inizio della battaglia finale e decisiva, fugge nascondendosi in una “carretta di Battaglione” per raggiungere il suo Reparto.
Giusto in tempo per partecipare agli ultimi furiosi combattimenti di Marco il 2 novembre , e per rendersi protagonista di un’azione memorabile: lui, Ardito Apino, monta a cavallo e fa, in 10 ore di galoppata ininterrotta, 100 chilometri, per raggiungere un Reparto rimasto isolato e senza ordini; dopodichè torna al Feltre, ed entra con i suoi uomini a Trento.
Si guadagna così la prima proposta di medaglia d’argento:
“Ferito, abbandonava di sua iniziativa l’Ospedale dove era ricoverato, raggiungendo il suo Battaglione, ove riassumeva il comando del Plotone Arditi, col quale prendeva parte all’attacco dello sbarramento di Serravalle-Marco (Val d’Adige).
Durante tutta l’azione comportavasi in modo ammirevole, facendo risaltare il suo ardire ed il suo grande spirito di sacrificio. Ad azione ultimata, quantunque gli venisse imposto il riposo, offrivasi volontariamente per prendere il collegamento col IV Gruppo Alpino, percorrendo da solo oltre 100 chilometri a cavallo (Serravalle-Marco-Trento, 2,3,4 novembre 1918)”.
La guerra è finita, ma non per tutti: per Vittorio c’è un corso sciatori della durata di 4 mesi (primo classificato) e la promozione a Tenente, con il trasferimento in Albania, dove le Truppe italiane devono garantire la formazione del nascente Stato albanese.
Qui il nemico è rappresentato dalle bande di “comitagi”, ribelli albanesi, abilissimi tiratori, che attaccano senza rispettare le regole, di giorno e di notte, e normalmente non fanno prigionieri.
È una guerra che spesso si risolve nel “corpo a corpo”, che esalta aggressività e fisicità dei combattenti, con episodi salgariani, al termine di uno dei quali Montiglio si trova “capo” della banda del Gula, e “proprietario” della vedova del vecchio capo, ucciso in uno scontro a fuoco – dall’andamento un pò misterioso, in verità – con gli Italiani. Proprio in questa circostanza viene proposta, per lui, la seconda medaglia d’argento:
“Colpito da febbre altissima, ed essendo venuto l’ordine di impossessarsi del capo della banda del Gula, offrivasi volontariamente. Attaccando con otto dei suoi Arditi la banda suddetta, riusciva ad uccidere il capo e sette dei suoi, componenti la banda, mettendo in fuga il resto.
A causa della febbre altissima, ad azione ultimata, perdeva i sensi e doveva essere trasportato all’accampamento a braccia, dai suoi soldati Gula (Albania), 23 dicembre 1919)”.
Dopo aver rifiutato ambedue gli omaggi dei sottomessi Albanesi – e questo, probabilmente gli salva la vita – rientra agli accampamenti, e, lungo il percorso, dà ennesima prova di coraggio e attaccamento ai suoi uomini, tuffandosi nel gelido Drin per salvare un Alpino che era caduto nel fiume vestito ed equipaggiato com’era, destinato a morte certa. Sarà questo l’episodio a base della concessione della medaglia d’oro.
È veramente, come ormai si ripete in tutti i reparti alpini “l’Ufficiale che non conosce la paura”.
Rimpatriato dall’Albania, il 4 aprile del 1920 diserta e raggiunge Fiume, dove già sono i due fratelli: assegnato inizialmente al Battaglione Ufficiali, si stanca dell’inazione e riesce ad aggregarsi all’ “Ufficio dei colpi di mano”,
distinguendosi – anche qui – per coraggio e spregiudicatezza, che gli fruttano, dopo un’azione di “prelevamento” a Trieste, la stella d’argento dannunziana.
distinguendosi – anche qui – per coraggio e spregiudicatezza, che gli fruttano, dopo un’azione di “prelevamento” a Trieste, la stella d’argento dannunziana.
Dopo il Natale di sangue, rientra al Reparto, e si contra con il nemico più temibile: la burocrazia. Viene, infatti, denunciato al Tribunale Militare per aver falsificato i documenti al momento dell’arruolamento.
Ne uscirà fortunosamente, nel settembre del ’21, con l’assoluzione motivata un pò “arditamente” da una Corte che “non riconosce reato l’alterazione della data di nascita, perché essa fu fatta con lo scopo di prendere parte alla Grande Guerra per il bene della Patria” e dispone perché la proposta di medaglia d’oro al valor militare, trasmessa l’anno prima all’apposita Commissione, abbia il suo corso.
Poteva un simile personaggio, una volta congedato, tornare alla tranquilla routine di una vita borghese? Certo che no. E, infatti, Montiglio è fascista e squadrista nel Torinese; poi agli ordini di Giunta, di nuovo a Fiume, nell’azione che porta alla cacciata di Zanella a marzo del ’22; di seguito in forza al fascio romano per un breve periodo; infine capo di squadre nelle azioni su Torino del 28 ottobre.
Finito il periodo “eroico” torna in Cile (dove continua la sua propaganda con la costituzione di circoli fascisti), finché, compiuti i 21 anni (che lì sono la maggiore età) saluta genitori e fratelli, di nuovo alla volta dell’Italia.
Lo riceve Mussolini, che di lui ha sentito parlare, e ne approfitta per chiedere un favore: non un posto statale o prebende di altro tipo, ma l’assegnazione alla neonata Arma Aerea, come Ufficiale pilota, all’aeroporto di Ghedi.
E qui si verifica un episodio un pò oscuro, ma che avrà gravi conseguenze: si inimica alcuni operai di persistenti idee sovversive, probabilmente di qualcuno chiede ed ottiene anche il licenziamento, finché, una notte (è l’8 ottobre del ’24), mentre torna in bicicletta ai suoi alloggiamenti, è aggredito da molti e conciato veramente male: sei mesi di ospedale e convalescenza in luoghi di cura, una mano semi anchilosata e la parte sinistra del torace offesa sensibilmente.
In quelle condizioni, non può più volare. Rinuncia alle sue aspirazioni e torna in Sud America, per conto dell’Associazione Nazionale Combattenti e dell’Istituto del Nastro Azzurro, forte della medaglia d’oro, che, nel frattempo gli è stata concessa (e il cui assegno ha ceduto all’Opera Nazionale Balilla).
Sempre irrequieto, nel 1929 rientra in Italia; il Segretario del Partito lo fa nominare Seniore della Milizia, nella quale era rimasto fino allora semplice Milite, senza nulla chiedere.
Il 9 novembre del 1929 l’auto sulla quale viaggia, con Guido Keller, Giovanni Battista Salina (anch’egli eroico pilota in guerra), e il corridore automobilistico Dalmazio Gabrielli sbanda – a causa della forte pioggia – ad una curva nei pressi di Otricoli, in provincia di Terni. I primi tre muoiono, il quarto si salva, così come si salva il guidatore, Atlantico Ferrari, che poi a Keller e Montiglio dedicherà commosse biografie.
I funerali si svolgeranno a Roma, con una grandissima partecipazione di folla; di essi è possibile vedere in rete una documentazione dell’Istituto Luce.
Anche il Cile lo onora, e a Santiago gli viene intestata una scuola per bambini italo-cileni (almeno fino a qualche anno fa, perché, sempre in rete, ho trovato, le proteste di alcuni genitori colà residenti per questa intitolazione “fascista”).
Nel rileggere il pezzo, mi viene un dubbio sul suo effettivo interesse e sulla sua “utilità” in questa Italia del 2014. Montiglio eroe di guerra non ha l’aureola di Toti e Baracca; Montiglio fiumano non ha l’esuberanza futurista di Keller e la intransigenza ideologica di Carli; Montiglio fascista scampa – per fortuna – alla sorte dei martiri giovinetti Maramotti e Pepe.
Eppure, c’è in lui quel “di più” che ce lo fa sentire vicino e “moderno”: la bontà d’animo testimoniata dalla stessa motivazione della medaglia d’oro, l’attaccamento alla patria, che vuol dire innanzitutto comunità di uomini, la lealtà e il coraggio comprovati in mille e mille episodi, l’ostinata volontà di vivere – anche a guerra finita – in coerenza ai valori ideali appresi al fronte.
Certo, è un discorso destinato a pochi, in un’Italia persa dietro alle vicende di “carogne” pseudo tifose e venditori di pentole pseudo primi ministri… la scommessa è dimostrare che di quei “pochi”, prima di diventare “nessuno”, riescano ad essere “tanti” (con buona pace del filosofo).
Motivazione della medaglia d’oro:
“Nato nel lontano Cile, da famiglia italiana, educato ad alti sentimenti di amor patrio, l’animo conquiso dagli eroismi e dai sacrifci della nostra guerra, la cui eco giungeva a lui attraverso le lettere dei due fratelli volontari al fronte, quattordicenne appena lasciò la casa paterna e, sprezzando pericoli e disagi, venne alla sua Patria.
Nasconden
do con la prestanza del fisico la giovanissima età, si arruolava nell’Esercito, e, dopo ottenuta l’assegnazione ad un Reparto territoriale, per la sua insistenza, veniva trasferito ad un Reparto Alpini d’Assalto, ciò che era nei suoi sogni e nelle giovanili speranze.
do con la prestanza del fisico la giovanissima età, si arruolava nell’Esercito, e, dopo ottenuta l’assegnazione ad un Reparto territoriale, per la sua insistenza, veniva trasferito ad un Reparto Alpini d’Assalto, ciò che era nei suoi sogni e nelle giovanili speranze.
Sottotenente a quindici anni, Comandante gli Arditi del Battaglione Feltre, partecipò con alto valore ad azioni di guerra, rimanendo ferito. Di sua iniziativa abbandonava l’Ospedale per partecipare alla grande battaglia dell’ottobre 1918, nella quale si distinse e fu proposto al valore.
Tenente a sedici anni, fu inviato col Reparto in Albania, dove, in importanti azioni contro i ribelli, rifulsero le sue doti di iniziativa, non fiaccate dalle febbri malariche dalle quali venne colpito. Nella stessa località, salvando con grave rischio un suo soldato pericolante nelle insidiose correnti del Drin, dava prova di elevata sensibilità umana e di civili virtù. Magnifica figura di fanciullo soldato, alto esempio ai giovani diche cosa possa l’amore alla propria terra. (Italia -Albania, giugno 1917-giugno 1920)”.
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