Il XX Canto dell’Inferno è dedicato agli indovini della IV Bolgia, che in vita hanno preteso di competere con la prerogativa divina di conoscere il futuro. Alla vista della processione dei penitenti, costretti a camminare a ritroso con la testa rovesciata all’indietro per avere creduto di vedere troppo avanti, Dante si appoggia a uno spuntone di roccia e piange, suscitando il richiamo di Virgilio: “Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?” (Inferno, canto XX, 25-27).
In realtà la malinconia del poeta non è dovuta alla triste sorte toccata a questa categoria di superbi, che in fondo se l’è cercata, bensì dal discredito da essa gettato sulle scienze astrologiche, un’arte di tutto rispetto che non intacca la fede in quanto la dottrina cristiana ammette gli influssi astrali. Né potrebbe in alcun modo negarli.
Dante rimugina inoltre sulla fragilità dell’essere umano, che quando perde l’equilibrio capovolge l’intero suo essere, anima e corpo, sperando che il lettore colga il reale senso del suo tormento: “Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione …” (Inferno, canto XX, 19-20).
Cadendo nel peccato della divinazione indovini, chiromanti, fattucchiere, streghe e stregoni hanno personalizzato la conoscenza, stravolgendola. Si sono illusi di essere non più «emanazione della volontà superiore», ovvero parte di essa, bensì qualcosa di meglio. Fino al giorno del giudizio dovranno così percorrere l’ottavo cerchio della quarta bolgia con passo di processione, lemme lemme, la testa rivoltata all’indietro e le lacrime che scendono giù per le spalle. In rigoroso silenzio, avendo già fatto fin troppe chiacchiere da vivi.
Escludendo arcinote caricature (o coperture) come il ciarlatano del quartiere che «fa le carte», lo pseudo-mago travestito da sacerdote egizio e la chiromante che vende filtri d’amore, è chiaro che la genìa degli indovini spedita all’Inferno da Dante non si è estinta. Al posto del cappello a punta e del mantello marcato con il simbolo del pentacolo oggi indossano i jeans e il pullover blu, ma identica è rimasta in questa tipologia umana la pretesa di sapere come sarà il mondo di domani.
Negli alveari delle grandi metropoli non sono rari gli «individui ispirati» che sanno, osano, tacciono e vogliono come l’enigmatico arcano numero 1 dei Tarocchi, definiti da Oswald Wirth “gli uomini e le donne apparsi mille volte diecimila sulla Terra” (I tarocchi, edizioni Mediterranee, 1973).
Il Bagatto sta in piedi dietro a una tavola rettangolare sulla quale sono posati tre oggetti: una coppa d’argento (sapere), una spada d’acciaio (osare), e un sacchetto d’oro (tacere); il dito indice punta verso l’alto come una bacchetta magica (volere) mentre la testa è coperta da un cappello a forma di 8 (cosmico) messo in orizzontale.
Chiaramente nel corso dei secoli sono cambiati i rituali, ma la stella polare di questa categoria di persone è sempre la stessa: superare i limiti umani acquistando abbastanza «potere» per competere con dio. Uguale è il proposito di bleffare al fine di tutelare i propri interessi. Immutata appare la platea dei creduloni, sempre molto affollata.
D’altronde nella società umana non sono mai mancati né gli individui in grado di «avere un’idea di futuro» prima di tutti gli altri né i pigri patologici disposti ad adottare la visione altrui, non avendone una propria. Il mondo funziona così da millenni: un pugno di persone pensa in grande mentre la massa si accontenta di un oggi uguale al ieri, e possibilmente anche al domani.
Al superbo tessitore di pronostici, al quale la modernità ha assegnato il nobile nome di «visionario», Dante non fa sconti. Né potrebbe in alcun modo assolverlo, vista la connotazione religiosa dell’intero poema. Nel Purgatorio, però, ci terrà a precisare che i superbi, appartenenti alla categoria di quanti schiacciano il prossimo per la smania di primeggiare, sono diversi dagli invidiosi che tentano, invece, di abbassare gli altri al proprio livello. Mal comune, mezzo gaudio.
Una distinzione opinabile ma compatibile con gli autori di riferimento dell’autore, Agostino e Tommaso, nonché conforme alle moralizzazioni medioevali. Almeno tre contraddizioni emergono tuttavia dall’impianto narrativo. La prima: Dante non ha peccato di superbia avventurandosi ancora vivo nella Selva Oscura? La seconda: la sua trasgressione non risponde forse a una presunzione intellettuale? La terza: pur non essendo particolarmente incline alla futurologia, il poeta non è animato a sua volta dalla folle pretesa di arrivare alla verità attraverso mezzi umani quali il ragionamento e la filosofia, di cui Virgilio è l’emblema?
Tutto sarebbe più semplice se l’uomo accettasse l’intera sostanza del suo essere, di cui la superbia è un ingrediente fra i tanti. Sarà pure imbarazzante doverlo ammettere, ma se non fossimo «naturalmente superbi» non ci saremmo giocati il Paradiso Terrestre sognando di entrare a far parte della «razza divina». E incredibile a dirsi non abbiamo ancora perso la speranza, confidando nelle qualità portentose dei nostri apparati macchinici.
Nella sfilata dei penitenti Dante individua l’indovino tebano Tiresia, le cui fortune/sfortune dipenderebbero secondo Ovidio dal suo ruolo di arbitro in una disputa tra la dea Era e Zeus (chi prova più piacere in amore, l’uomo o la donna?). Non è tuttavia sulle arti divinatorie di costui che si sofferma il poeta, più interessato al suo cambio di sesso. “Vedi Tiresia, che mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne / cangiandosi le membra tutte quante; / e prima, poi, ribatter li convenne / li duo serpenti avvolti, con la verga, / che riavesse le maschili penne” (Inferno, canto XX, 40-45).
Un giorno Tiresia stava passeggiando sui monti, quando incrociò due serpenti avvolti in un amplesso amoroso. La scena lo distolse dai suoi pensieri, dandogli un gran fastidio. Prese allora un bastone con il quale cercò di dividere le serpi, ma purtroppo nella colluttazione la femmina rimase uccisa. Istantaneamente lui stesso fu tramutato in donna, rimanendo in quella condizione per sette lunghi anni, un periodo durante il quale egli ebbe modo di provare tutti i possibili piaceri femminili. Trovandosi qualche tempo dopo di fronte alla stessa scena, reagì in modo analogo. Ma stavolta a morire fu il serpente maschio, sicché lui ritornò uomo.
Chi meglio di Tiresia, dunque, che da maschio era diventato femmina per poi riavere indietro gli attributi maschili, poteva valutare le istanze degli dèi? Dare torto ad Era gli costò la vista, in compenso ottenne da Zeus il dono della profezia. Ma cosa c’entra con la Commedia il cambio di sesso dell’indovino tebano? Non si stava parlando di indovini e negromanti?
Avendo già chiesto consiglio agli uomini e alle donne “apparsi mille volte diecimila sulla Terra”, cioè ai Tarocchi, possiamo continuare a scavare nella stessa miniera di significati. Per esempio l’arcano XIV, la Temperanza, è un genio androgino, o più esattamente ginandro. L’arcano XV, il Diavolo, è invece bisessuato. L’arcano XIII, la Morte, non ha sesso, appartenendo alla dimensione non individualizzata, al fluido universale asessuato, pur tuttavia suscettibile di polarizzazioni sessuali.
Supponiamo per un momento che gli ignoti ideatori dei Tarocchi abbiano agito con le stesse intenzioni di Dante, il quale non entra nella metafisica solo per descrivere le intelligenze angeliche e i moti celesti ma anche per inviare messaggi di altra natura. Chiaramente si tratta di un’ipotesi, già è difficile entrare nella propria testa figurarsi in quelle altrui. Ma il divertimento nella ricerca sta nel ricercare, non certamente nello svelare gli arcani, sennò sarebbe già tutto finito da un pezzo.
Com’è noto l’Uno maschile è «Principio» del Due femminile, mentre il Due femminile è «Potenza» dell’Uno maschile. L’intreccio implica un’ampia gamma di significati a partire dal ruolo celeste, uranico, affidato all’uomo-Adamo, personificazione del Nous, cioè dello Spirito, se non addirittura dello stesso dio.
Solo in un secondo tempo questo Maschio Assoluto (androginico, non ancora polarizzato) crea la Femmina a livello qualitativo, la quale, sul piano della Manifestazione, a sua volta crea un maschio «non più androginico» in termini quantitativi ma comunque portatore sano di una traccia dell’antica doratura, visibile nell’inclinazione alla trascendenza, o in particolari attitudini «sottili» che confluiscono nel Sacro.
In considerazione di ciò Origene, tanto per citare un autore tra i tanti che si sono cimentati sulla questione, si dichiarava convinto che la «creatura umana» in quanto tale doveva essere considerata femminile a prescindere dal sesso di appartenenza. Per il filosofo e teologo alessandrino «essere donna» era sinonimo di «essere umano», sebbene non sia affatto chiaro se l’affermazione debba essere interpretata come un complimento o come un’amara constatazione.
Queste speculazioni metafisiche oggi trovano riscontri nella biologia giacché il femminile (cromosoma XX) appare più solido, ovvero ben radicato nella Manifestazione, mentre il maschile (cromosoma XY) è sbilanciato, ondivago, «meno umano» e più uranico. Piccolo, leggero, dotato di un numero inferiore di geni rispetto a X e piuttosto timido, il cromosoma Y potrebbe essere l’eredità dell’originaria matrice androgina.
Proprio adesso che pensiamo di avere capito quasi tutto, sarebbe un bello smacco scoprire che a nostra insaputa il fattore «sottile» sta ancora girando dentro di noi in cerca di una via d’uscita. Può darsi, ma non è sicuro, che la pesante critica di Dante alle arti divinatorie vada letta in chiave metafisica: stiamo camminando da millenni sulla strada sbagliata e ci ostiniamo a farlo.
Il Fiorentino non è un uomo dalle facili parole, se dunque mette in cima al rapporto altalenante tra l’XX e l’XY proprio Tiresia che di mestiere fa l’indovino anziché il falegname, il letterato, il guerriero o qualcos’altro, significa che l’emblema dell’uomo in bilico tra il Principio e la Potenza è lui/lei: il mago, il giocoliere, l’illusionista, l’«uomo ispirato». O, come si dice oggi, il visionario.
Per non farsi mancare niente nella processione dei penitenti c’è anche la figlia-collega, Manto, la cui vicenda esistenziale può essere così riassunta. Trovandosi a passare per l’Italia settentrionale con un gruppo di servi, la veggente vide un acquitrino incolto e scarsamente abitato (la Bassa Padana) che giudicò idoneo a praticarvi le arti divinatorie poiché lontano da occhi indiscreti. “Quindi passando la vergine cruda / vide terra, nel mezzo del pantano, / sanza coltura e d’abitanti nuda. / Lì, per fuggire ogne consorzio umano, / ristette con suoi servi a far sue arti, / e visse, e vi lasciò suo corpo vano” (Inferno, canto XX, 82-87).
A dire la verità Dante non dichiara esplicitamente che Manto è la figlia di Tiresia, forse nemmeno lo sa, visto che nel Purgatorio farà dire a Virgilio a colloquio con Stazio (canto XXII, 113) che nel Limbo è ospitata la figlia di Tiresia, cioè la stessa Manto già collocata nella IV bolgia dell’Inferno.
Dopo la morte questa donna ispirata venne sepolta in loco. Gli adepti che le sopravvissero si fermarono in quella palude così ben fornita di barriere naturali (la nebbia) per continuare a fare esperimenti di «potenza» in santa pace. Le generazioni successive edificarono sul sepolcro della fondatrice una piccola città: Mantova. Il resto è Storia.
Si noti che la ricerca della segretezza è una costante temporale per chi opera al di fuori degli schemi convenzionali al fine di “pervenire alla razza divina”. Ancora oggi alcuni «visionari di successo» organizzano raduni blindatissimi, come ad esempio il Burning Man Festival che a partire dagli Anni Novanta si tiene ogni fine estate nel deserto del Nevada, un luogo reso inabitabile dalle scorie radioattive. In questa specie di woodstock del Terzo Millennio sesso e potere si fondono, confondendosi, con le più avanzate tecnologie sempre per gli stessi motivi: liberare l’Io interiore, recuperare la fiducia in sé, accumulare potenza.
Il divieto di fotografare o riprendere l’evento è tassativo e la riservatezza dei partecipanti è assoluta, la sola notizia trapelata riguarda la presenza di molti pezzi grossi della Silicon Valley e di alcuni profeti dell’ideologia post-umana. Il più loquace del gruppo, Elon Musk, ha dichiarato che “il festival Burning Man è Silicon Valley” in quanto esprime la visione degli «eletti» impegnati a progettare il futuro dell’umanità, nonostante nessuno glielo abbia chiesto.
Inutile dire che i giochi di prestigio dei nuovi trafficoni ispirati sono lontani anni luce dalle pratiche magiche officiate dagli Antichi quale «culto degli dei» ed intese come simbolo e manifestazione dell’eterno potere di dio, della forza della vita sulla morte, della luce dell’intelligenza capace di annientare la tenebrosa ignoranza. Tuttavia, sono di gran lunga più pericolosi.
Per la prima volta gli illusionisti possono permettersi il lusso di coniugare le più avanzate tecnologie con pratiche assai remote. Mantengono un piede nelle tecnoscienze e l’altro nel magico, ma non si sa dove può portare la loro smania di entrare a fare parte della «razza divina».
Al grande pubblico questi soggetti raccontano che conta solo il presente, perché le ricerche chimeriche non sono mai approdate a nulla (come se il primo pensiero dei pochi fortunati che per ipotesi avessero trovato qualcosa fosse stato quello di dirlo in giro!), ma intanto loro continuano a nuotare nel mondo fluttuante dei processi mentali archetipici.
Orwell nel suo celeberrimo 1984 scrive: “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. Di fatto i superbi affamati di potere non hanno mai smesso di rivolgersi al passato per ottenere la «qualità» necessaria a dare sostanza ai propri progetti, un po’ come dire che il metodo di valutazione «quantitativo» del presente era, ed è, inadeguato. A partire da Ashurbanipal che voleva farsi re del mondo, tanto per mettere un punto fermo sulla carta, è sempre stato così. Siamo sicuri che questo sia il modo giusto di procedere?
Dante sembra suggerire il contrario ai lettori con “li ‘ntelletti sani”. Fino a quando non si sposterà il focus dell’attenzione dai mezzi esterni a disposizione all’armonizzazione interiore di Principio e Potenza, sarà impossibile immaginare una forma di vita differente. Dopo di che nuovi uomini troveranno nuovi equilibri, ma non con l’inganno, ossia attraverso l’inserimento nel corpo di correttivi bionici e di circuiti integrati miniaturizzati, armamentari capaci solo di esasperare l’accumulo di Potenza tecnologica. Altrimenti non c’è speranza, si continuerà ad incolpare di ogni fallimento la parte umana (femminile) e a riporre aspettative smisurate nella divinità nascosta dall’altra parte (maschile). Così, per l’eternità.
L’ultima ruota del carro degli indovini condannati all’ergastolo infernale è rappresentata dalle cosiddette «maghe», cioè dalle “triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; / fecer malie con erbe e con imago” (Inferno, canto XX, 121-123). Il Trecento di Dante è ancora lontano dalle persecuzioni che colpirono la stregoneria, ma già serpeggia nella società una certa avversione per le «erbivendole» (guaritrici) che preparano filtri e pozioni anziché dedicarsi alle attività donnesche.
Il poeta non nasconde la sua antipatia per questa categoria di persone e avrà modo di ribadirlo anche in seguito, nel Purgatorio, raccontando di avere visto in sogno un’antica strega dall’aspetto orrendo, cioè una “femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba” (Purgatorio, canto XIX, 7-9).
La forma è sostanza, come sappiamo, e il paragone tra la megera disonesta e l’elegante truffatore salta agli occhi. Sempre di imbroglioni si tratta, secondo l’opinione comune, tuttavia quelli che scrutano il futuro studiando sui libri sono considerati «un po’ migliori» degli altri che si sporcano le mani per preparare unguenti e medicamenti.
Il pregiudizio viene da lontano e stenta a scomparire, come ben sanno schiere di onesti farmacisti visti nei secoli come qualcosa di meno dei dottori, perché lo studio teorico vale più dell’esperienza pratica. Eppure oggi non avremmo i farmaci che curano molti dei nostri malanni se l’insegnamento tradizionale non avesse tramandato, per esempio, la conoscenza secondo cui gli ambienti che provocano certe malattie forniscono anche i rimedi naturali per combatterle.
Da dove crediamo provenga la «scoperta» dell’aspirina? Dall’esperienza. Un sacerdote inglese del XVIII secolo rispolverò, perfezionandolo, l’uso antico di ridurre in polvere la corteccia di salice per curare le febbri. In un ambiente umido come quello britannico, dove era più facile contrarre le malattie da raffreddamento, la natura offriva in abbondanza salici dai quali si estraeva un principio attivo, l’acido salicilico, da cui era possibile ottenere l’acido acetilsalicilico. L’aspirina, appunto.
Nel complesso il messaggio di questo canto è abbastanza chiaro: ammesso che esista il vero potere ha radici in un piano della realtà totalmente diverso da quello per il quale le arti divinatorie possono offrire delle spiegazioni, sia pure parziali. Non bastano quatto formulette riciclate a resuscitarlo poiché la sua natura è squisitamente spirituale, non si eredita né si compra, eventualmente la si ottiene al termine di un lunghissimo cammino.
In alternativa ci sono le scorciatoie, considerate da Dante una frode. Come dargli torto … conosciamo bene anche noi la disonestà dei nuovi indovini, o visionari, che sollevano dei polveroni enormi per far credere al prossimo di agire in nome e per conto del Bene dell’Umanità, di cui sarebbero gli araldi, quando invece badano solo agli interessi propri.
Secondo Geminello Preterossi, autore del saggio Contro Golia, il Bagatto del XXI secolo sarebbe il tecno-miliardario sociopatico che racconta a un pubblico già ampiamente imbambolato dalla tecnologia di avere i mezzi per ricreare, migliorandola, l’umanità. La bacchetta magica che impugna si chiama web, televisione, smartphone, tablet, ed è anch’essa una fonte di effetti speciali. Il filo mitologico che usa per unire e imprigionare le menti è la «rete». I filtri miracolosi che vende sono ambiziosi farmaci genici volti ad imporre il controllo sull’organismo biologico umano. Le parole di potere sono la propaganda diffusa dal megafono mediatico che promette un futuro migliore. Questi espedienti sono diventati la prassi in un tempo ambiguo come l’Età Oscura, dove tutto si concede affinché nulla (d’importante) realmente si compia.
(il viaggio continua)