Cominciando da quel “Vola colomba” del titolo sono entrato subito in sintonia con la storia che ci propongono Giovanni Grigillo e Bibi Dalai Pietrantonio, che si sono divisi la scrittura dell’opera. Ognuno dei due coautori ci presenta – i loro racconti si alternano – le particolari vicende di un periodo della propria linea genealogica risalente a un paio di generazioni prima. Al centro della storia raccontateci da questo agile libro di 128 pagine vi è la coppia “Gianni e Amelia”, uniti dall’“amore travolgente” evocato dal titolo.
Ciò che ci raccontano i due autori sono squarci della storia delle loro famiglie, relativamente a una relazione amorosa tra due adulti già sposati. Ma con sullo sfondo i traumi storici del periodo in cui questi personaggi vissero.
È una storia di famiglia, anzi di famiglie; le quali hanno profondi legami con Trieste, e con la Dalmazia da cui la popolazione italiana autoctona fu costretta ad andare via, in esodi successivi, per sfuggire alla slavizzazione e all’“atteggiamento ostile e violento degli slavi” (p. 76). E dopo questi esodi (uno alla fine del secolo decimonono e nei primi anni del ventesimo, l’altro dopo la conclusione della prima guerra mondiale) vi fu l’esodo definitivo. Con la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la Dalmazia italiana divenne slava, interamente. E così fu per Fiume, e così per l’Istria.
“Vola colomba” meriterebbe un’ampia diffusione, anche per le verità storiche che ci presenta, offrendo il punto di vista dei testimoni-vittime di quegli eventi ormai lontani ma dolorosamente presenti a tanti di noi.
Le narrazioni dei due autori sono separate dai caratteri tipografici distinti cui essi hanno voluto far ricorso. Infatti, il racconto di Bibi Dalai è in corsivo mentre quello di Giovanni Grigillo (Gianni junior) è nella normale scrittura in tondo. Ciascuno dei due coautori rappresenta la propria linea genealogica. E le due linee – i Grigillo e i Pietrantonio-de Mistura – si toccano ma non si mescolano, nel senso anche che i due autori non sono consanguinei.
Se la narrazione di Gianni junior nel suo insieme occupa un maggior numero di pagine rispetto a quella di Bibi Dalai Pietrantonio, ciò si spiega perché egli ci presenta, retrocedendo nel tempo, una serie più ampia di vicende collegate a quel personaggio un po’ fuori del comune che fu suo nonno, suo omonimo: Giovanni Grigillo (“Gianni senior”), dalmata di Spalato, esiliatosi a Trieste.
Al centro della storia campeggia questo dentista dalmata, dalla forte personalità, non espansivo ma generoso, coraggioso e dai forti sentimenti patriottici, e inoltre molto sensibile al fascino femminile. Ad un certo punto della sua vita, trentasettenne – correva l’anno 1928 o pressappoco – già sposato s’innamora di una cliente del suo studio dentistico di Trieste. È un amore che durerà. Gianni senior lascerà la moglie, Gisella, (cui lui rimproverava di non aver studiato e di aver poca cultura, e quindi “ho poco da condividere in famiglia con lei” p. 28) originaria anche lei di Spalato, con cui ha avuto due figli, Dante e Beppi, e inizierà a vivere con la sua nuova compagna, Amelia; senza però mai venir meno ai suoi doveri paterni e alle responsabilità economiche che gli derivano dall’avere ancora anagraficamente una moglie pur convivendo con un’altra donna. Da questa nuova unione non nasceranno eredi.
Ma perché quel “Vola colomba” del titolo? Ce lo spiega Dario Fertilio nella sua mirabile prefazione (che meriterebbe che io la riproducessi qui per intero): in questa canzonetta del 1952, quindi due anni prima che Trieste si ricongiungesse finalmente all’Italia, vi è il motivo della “solitudine di un intero popolo condannato all’oblio, il peso dell’indifferenza seguita alla tragedia dell’esodo, il distacco dei dalmati dalla loro terra e la lontananza dall’Italia di quella Trieste – sarebbe durata ancora due anni – che in gran numero li aveva accolti.”
La canzonetta “Vola colomba”, cantata da Nilla Pizzi, che con essa vinse il festival di Sanremo del 1952, “raccontava di due fidanzati divisi da una nuova e crudele frontiera. Trieste viveva l’angoscia di un potenziale cedimento della Patria sconfitta alle sempre più audaci pretese jugoslave.” Gli altri italiani ripetevano lo stornello di Vola colomba, senza capire che quelle parole esprimevano un dramma vissuto da tanti. Il motivo musicale “Vola colomba”, menzionato dal titolo, non può dire più di tanto a chi non possieda certi sentimenti d’amor patrio (“sentimento risorgimentale” lo definisce Fertilio nell’introduzione).
Dario Fertilio con tocchi molto felici, sempre nell’ introduzione a questa “testimonianza diretta e sofferta in forma narrativa” che è altresì “romanzo di memoria autentica che finge soltanto di essere inventato, per rivelare nel finale l’ordito reale della tessitura”, fa riecheggiare nel nostro animo di esuli o di discendenti di esuli certe dolorose verità: “Da Trieste a Ragusa coloro che si erano illusi d’essere figli prediletti d’Italia si sarebbero scoperti quasi stranieri, al massimo tollerati.”
Qualche parola sugli autori. Giovanni Grigillo (“Gianni junior”) è il nipote – figlio del figlio – del protagonista della storia, suo omonimo: Giovanni Grigillo (“Gianni senior”), dalmata di Spalato, esiliatosi a Trieste, che racconta così quel primo suo esodo cui ne seguiranno altri: “Ci trasferimmo a Trieste già nel 1919, quando si era capito che Spalato sarebbe stata assegnata alla Jugoslavia. (p. 41)
Bibi Dalai Pietrantonio è la nipote di Amelia, che visse un “amore travolgente” con Gianni senior e trascorse un’intera vita con lui, dopo aver lasciato la figlia ancora bambina “Niki” (Bibi Dalai è figlia di “Niki”) e il marito: il nobile Marsilio de Mistura, esule dalmata, padre di “Niki”.
Apprendiamo, ma solo nel capitolo finale del libro, che l’incontro tra i due futuri coautori è avvenuto a Milano nel 2005, in occasione della celebrazione del “Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo dei giuliano-dalmati”. Essi hanno così scoperto, nel corso di questo primo incontro, di avere in comune un passato famigliare assai particolare dovuto alle vicende relative alla lunga unione more uxorio che vi era stata tra il nonno di Gianni e la nonna di Bibi Dalai, Amelia Gerbin-de Mistura. Quest’ultima, infatti, aveva abbandonato il marito, di famiglia nobile, il dalmata Marsilio de Mistura e la loro figlia ancora bambina, per convivere con Giovanni Grigillo di cui si era innamorata – “Amelia, seppur moglie e madre, fu sopraffatta dall’intensità del sentimento.” ( p. 49).
Bibi Dalai, nipote di Amelia, ossia di quella misteriosa nonna di cui in casa mai nessuno parlava e di cui non esistevano più tracce, aveva appreso solo in seguito, dopo la morte di sua madre, i particolari di quella ben celata storia famigliare. Gianni junior aveva invece conosciuto bene, fin da bambino, “zia Mea” come lui aveva sempre chiamato la compagna di “nonno Gianni”.
I due “eredi” si sono allora impegnati a raccontarne la storia, congiuntamente; forse anche per esorcizzare un passato famigliare così particolare, che si presta ad interpretazioni diverse per le conseguenze che questa unione extraconiugale ebbe sui famigliari, ossia sui rispettivi coniugi legittimi e i loro figli (i due figli di Gianni senior e di Gisella: Beppi e Dante; quest’ultimo è il padre di Gianni junior, coautore del libro). E specialmente sulla giovane figlia di Amelia e di Marsilio, “Niki”, personaggio da tragedia greca, come lo è anche sua madre, Amelia, di cui “Niki” si vendicò atrocemente rifiutando nel corso degli anni i tentativi fatti da questa per rivederla e per riconciliarsi. “Amelia cercò invano di incontrare la piccola, di vederla almeno di sfuggita all’uscita della scuola, a messa, in qualsiasi altra occasione. Niente. Dovette soffrire aspramente questa imprevista situazione e non trovò molto conforto in Gianni che, invece, si dimostrava contrario alle sue iniziative.” (p. 53)
“Niki” mai accettò d’incontrarla. E mostrò così di essere una degna figlia di suo padre, Marsilio de Mistura, persona intransigente quanto lei. Ecco l’episodio di un tentativo fallito di rivedere “Niki”. Ad Amelia giungono voci che la figlia si è sposata, ha una bambina e vive a Milano, in una residenza lussuosa. Amelia si reca allora a Milano. Vorrebbe incontrarla e farsi perdonare. Bussa alla porta della prestigiosa residenza e dice al maggiordomo, che le ha aperto, di voler vedere la signora Pietrantonio; questo è il cognome della figlia da sposata. Sono sua madre, specifica. Il Maggiordomo dopo un po’ ritorna recando un gelido messaggio: “La signora ha detto che non ha una mamma.”
Gianni e Marsilio, i due uomini fondamentali nella vita di Amelia, sono un po’ l’opposto l’un dell’altro: “Alto, elegante e di bell’aspetto, Marsilio era posato e riservato quanto Gianni impetuoso, audace talvolta irascibile. Serio, fedele, tutto casa e lavoro, innamorato, Marsilio le offriva i benefici di una posizione sociale e dell’ingresso in una famiglia aristocratica. Ma in Gianni c’erano l’irruenza e l’eccentricità di un temperamento appassionato.” (p. 49) Li accomuna comunque l’amore per l’Italia; e anche la coerenza e l’inflessibilità di carattere. Un esempio tra i tanti. Ecco cosa fa Marsilio quando sua moglie gli rivela di avere una relazione con un altro, di cui è innamorata. “Lui non si aspettava nulla del genere. Alle rivelazioni della moglie restò di pietra. Poi la ricaricò in automobile e la portò vicino a Postumia, aggiungendo solo ‘ti ho portato dove ti ho incontrato. Non ti far più vedere.’” (p. 53)
Gianni senior era un autodidatta –“si era fatto tutto da sé, aveva studiato, frequentava gli ambienti della sua professione, i circoli culturali e letterari, i teatri” (p. 28) – e come dentista godeva di una assai confortevole posizione economica. Le vicende della vita e gli eventi storici di quell’epoca tormentata gli faranno cambiare residenza, diverse volte. Si sposterà, continuando ad esercitare la sua attività professionale, tra Trieste, la Dalmazia, la Lombardia; e assumendo le proprie responsabilità e coerente fino all’ultimo nei confronti del suo forte patriottismo che non si esauriva nelle semplici parole ma si traduceva in scelte di vita, dove la fedeltà alla patria e alla propria sofferta identità di italiano erano un valore assoluto. Tornerà infine definitivamente a Trieste, dove morirà.
Gianni senior è nato a Spalato, figlio di Marietta Fratniek, croata di Cattaro (diventata, dopo aver sposato un italiano, “italiana, italianissima”, specifica con orgoglio Gianni senior), e di Pietro Grigillo. Quest’ultimo, nato nel 1859, morì nel dicembre del 1943 a Zara, sotto i bombardamenti anglo-americani; figlio a sua volta di Nicolò Grigillo, nato nel 1929, maritato a Andrianna Cuzmanich, slava (non si sa se croata, serba, macedone o altro), e morto nel 1882. Nicolò Grigillo detto ‘Caravanich dal Borgo Grande’, classe 1829, era un commerciante discretamente agiato. Morì nel 1882, non ancora cinquantatreenne, dopo aver perso tutto e lasciando debiti alla vedova e ai due figli: Pietro, il padre di Gianni senior, nato nel 1859, e “Toni marinaio della Marina Austriaca Imperiale”. [p. 21] Quest’ultimo si era “croatizzato per campare” ossia si era visto costretto a mostrare sentimenti croati nella marina austriaca, dove da italiano non avrebbe fatto carriera e avrebbe rischiato di perdere il posto. (p. 27)
Pietro Grigillo era un innamorato della musica classica e aveva sempre sognato di diventare un grande direttore d’orchestra. “Ma si risolvette a fare il tappezziere” (p. 22). Nel 1904 emigrò improvvisamente in America, lasciando dietro di sé la famiglia, con la quale dopo “qualche lettera per i primi anni” non comunicò più. Rientrò dopo 35 anni, spiantato (fu suo figlio, Gianni, ad inviargli i soldi per il viaggio di ritorno). E la moglie Marietta, almeno sulle prime, si rifiutò di accoglierlo (“Ma la mia Marietta non lo vuol vedere”, commenta il figlio, Gianni senior).
Non si può non stabilire un parallelo tra la definitiva “uscita di casa” di Gianni senior, a Trieste, e quella “fuga”, tanti anni prima, di suo padre che partì per l’America. E un parallelo va anche fatto tra i due, padre e figlio, in relazione al loro amore per la musica, la lirica, il canto. Dopo tutto Gianni senior, che canticchia volentieri motivi d’opera celebri – in “Vola colomba” molto frequenti sono i richiami alla musica – è figlio di Pietro, aspirante direttore d’orchestra, le cui ambizioni progressivamente si spensero nel corso di una vita assai grama, piena di delusioni.
I debiti del nonno di Gianni, Nicolò, imputabili in gran parte “alle avverse condizioni economiche e sociali degli italiani di Spalato provocate dalla politica austro-ungarica nella seconda metà del diciannovesimo secolo” (p. 21) si ripercossero sul futuro dei figli e sugli altri discendenti. Come se non bastasse, i Grigillo furono più di una volta duramente provati dalla sorte. Il più grande dei due fratelli di Gianni senior, Marcello, “morì per una polmonite fulminante: lavorava in fonderia e, uscito sudato in un giorno di bora, si prese quel malanno da cui non ne uscì” (p. 38). L’altro Bepi, cioè Giuseppe, non ancora ventenne si uccise per una delusione d’amore. La sorella di Gianni senior, rimasta a Spalato, era sposata a un croato e viveva in condizioni economiche difficili. Di lei Gianni non parla mai, perché “Per me è come se fosse morta”. Pietro Grigillo, padre di Gianni, morirà sotto le bombe a Zara.
Se riporto questi dati biografici è innanzitutto per marcare il carattere autoctono dalmata dei Grigillo, e per mostrare che le loro condizioni di vita non furono per nulla prospere dopo il rapido declino delle attività commerciali di nonno Nicolò. Da queste note traspare anche il carattere intransigente della gente di quelle terre, in quei tempi, il che spiega il risentimento che Gianni senior provava verso i croati, cui attribuiva gran parte delle cause del tracollo delle fortune famigliari. Sempre presenti alla sua memoria erano inoltre le angherie subite dalla sua famiglia “nelle ultime due generazioni” (p. 21) ad opera dei croati; con cui però, dopotutto, egli condivideva – come abbiamo visto – una parte di DNA.
Dalmati autoctoni, beninteso, sono anche i de Mistura, antica e nobile famiglia di Sebenico. Marsilio de Mistura, all’indomani della prima guerra mondiale aveva lasciato la sua amata Sebenico “passata, da quella austriaca, sotto l’amministrazione jugoslava” (p. 18) . Aveva preferito andar via dalla Dalmazia per “non piegarsi alla ‘slavizzazione’ obbligatoria imposta dalla nuova amministrazione pubblica (…) Aveva abbandonato tutto e tutto era stato confiscato.” (p. 19) “Lì non erano più ritornati [i de Mistura] da quando Sebenico era passata, da quella austriaca, sotto l’amministrazione jugoslava.” (p. 18) “Venuti a Trieste, Marsilio e suo fratello [Camillo] avevano cercato di tenersi da parte qualcosa di quella fortuna, finita in mano agli ‘sciavi’, affidandola alle sorelle rimaste a Sebenico coi rispettivi mariti. Ma questi non rinunciando alle debolezze di quella gente godereccia, le donne e il gioco, si erano mangiati tutto compresa la meravigliosa goletta.”( p. 35)
Bibi Dalai ricorre a certi termini un po’ forti per esprimere il risentimento dei de Mistura nei confronti degli slavi, di cui si consideravano le vittime. Ma i giudizi dei due fratelli sui loro cognati slavi dimostrano un certo disprezzo “etnico” che – oso dire – non si sa se fosse il frutto del loro reale sentire oppure se sia un’attribuzione a posteriori fatta da Bibi Dalai Pietrantonio e posta a carico di questo ramo famigliare per il quale – a me pare di avvertire – lei non prova, dopo tutto, una profonda simpatia.
Gianni junior, coautore, ricorda molto bene la compagna di nonno Giovanni, “zia Melia” per lui, e ce ne fornisce un ritratto assai realistico, che però non fuga tutte le incertezze che avvolgono questo personaggio. Amelia Gerbin-de Mistura, slava italianizzata (“Slava sì. Serba o croata , chissà? Non ho mai approfondito.”) comprimaria della storia, esce con assai meno rilievo, rispetto a Gianni senior, dal racconto che ce ne fanno gli autori, forse per il suo carattere remissivo e il suo ruolo in subordine rispetto a quello del suo vulcanico compagno di vita. E anche per una certa sua ambivalenza. “Amelia era combattuta tra il desiderio di dichiararsi italiana, per sottomissione alla nazionalità del marito, e la volontà di difendere la propria appartenenza originaria di cui andava fiera.”( p. 21) “Amelia non era la classica donna nata per fare la madre. Era affettuosa, premurosa, amava quei bambini [Dante e Beppi, figli di Gianni senior, suo convivente] come se fossero stati suoi veri nipoti, era paziente e dolce, ma distratta, qualche volta svagata, mancava di quell’attenzione che le madri sentono spontaneamente nascere in loro per proteggere i figli dai pericoli della vita.” (p. 109)
A Bibi Dalai Pietrantonio dobbiamo la presentazione fine, delicata e in certi momenti elegiaca di eventi, colori, suoni, atmosfere dell’elegante Trieste di un’epoca non poi così lontana ma definitivamente tramontata. L’autrice cerca di dar voce soprattutto alla solitudine di sua madre bambina, la “Niki” del libro, che dopo aver tanto sofferto per l’abbandono subito, si impone, riuscendovi, di mai lasciarsi avvicinare da quella madre da lei considerata indegna. Quando Gianni e Amelia avevano preso a frequentarsi, Niki aveva otto anni.
Il suo rifiuto della mamma, che lei tanto aveva amato ma da cui era stata abbandonata, sarà irreversibile al punto che “Niki” mai racconterà a sua figlia la storia di “nonna Amelia”. Una madre-nonna, quest’ultima, inesistente. E Pietrantonio cerca di ricostruire infine questa sua nonna fantasma: Amelia Gerbin, sposata a un de Mistura, divenuta compagna di vita di Giovanni Grigillo, e che alla morte di questo, ormai anziana, andrà a vivere a Zagabria, dove aveva i fratelli, le sorelle e altri parenti.
Si sente che l’autrice è fortemente attratta da nonna Amelia, personaggio enigmatico, da lei mai incontrata ma alla quale vuol dar vita quasi a volerla rimetterla nella casa di “Niki” de Mistura-Pietrantonio. Una casa, quella di “Niki” e di Bibi Dalai, sua figlia, in cui “nonna Amelia” non era mai apparsa neppure in foto. E per materializzare questa sua nonna mai incontrata, l’autrice farà rivivere al lettore il dramma di una madre – sua madre – abbandonata, e quello di un’altra madre – sua nonna – respinta.
Bibi Dalai Pietrantonio, così abile nell’evocare le atmosfere romantiche, a me è apparsa un po’ distante dal mondo di noi esuli, o figli di esuli, e dai nostri sentimenti di amor patrio, e dallo sfondo storico su cui si stagliano personaggi come Marsilio de Mistura e Giovanni Grigillo. Ecco comunque un suo felice tocco sul poco comunicativo Marsilio de Mistura, tutto dedito al lavoro e dall’animo dell’esiliato: “… lei [Niki] scivolava sul terrazzino, per cogliere l’ultima visione di quella figura maschile, magra, allampanata, vestita di grigio, dalla lunga ombra, attraversare la strada e scomparire oltre l’angolo; eccolo, era andato.(…) Lui non si girava mai a guardare verso la finestra. Ignaro che lo stesse spiando, dimentico ormai di quegli affetti domestici, proteso alle prossime incombenze…” (p. 16) Gianni junior ci rappresenta un uomo distrutto, dopo il tradimento della moglie: “Il marito cadde in una forte depressione, ma non recedette dal proposito di proibire qualsiasi contatto della figlia con la madre.” (p. 53) In seguito, la delicata penna di Bibi Dalai ci descrive il marito di Amelia, ricoverato in sanatorio, “magro, così riservato, elegante, distinto, aristocratico e con un’aura di mistero.” ( p. 65) E sempre alla sua penna dobbiamo la descrizione romantica dell’incontro e dell’amicizia che nasce in sanatorio tra il nobile uomo e la baronessa Aimerich.
Bibi Dalai Pietrantonio mostra una viva simpatia per il ramo croato della propria famiglia, i Gerbin – sua nonna Amelia era una Gerbin – che innalza in una maniera che può apparire po’ ingenua per certi toni elegiaci, un po’ da fiaba, che usa: “La bella casa di Zagabria, piena di bow window, di specchiere e di stufe di maiolica, dove viveva la vecchia nonna, piccola e allegra come la mamma e gli zii, fratelli di lei, alti, eleganti, dalla risata tonante.” (p. 18). Le zie materne di “Niki”, Dolores e Ines di Zagabria, sono anche loro eleganti, e inoltre provviste di molto charme, e dal fare spontaneo e gaudente, come tutti gli altri del ramo “slavo” di “Niki” . “Noblesse oblige” gli “zii materni erano diversi da quelli paterni, questi ultimi meno estroversi, più fini e riservati: la zia Ines, aristocratica e contegnosa, ma non esente da ombrosità e lo zio Camillo, il più simpatico, dedito alla sua farmacia a San Pietro del Carso.” (p. 18)
Le tristi conseguenze delle sciagurate leggi razziali che colpirono gli ebrei (annunciate da Mussolini nel 1938, proprio a Trieste, in piazza Unità d’Italia) trovano il dovuto spazio nel libro, tanto da divenire per un po’ il tema centrale della narrazione di Bibi Dalai, attraverso anche la storia di Ester, amica di Niki. L’esodo degli ebrei da Trieste fa trovare all’autrice toni struggenti. Il suo racconto si anima grazie a una partecipazione totale a quella triste vicenda che si conclude, comunque, con un lieto fine: il ritorno degli ebrei nella loro patria. La tragedia degli ebrei ci è presentata dall’autrice con intensità di sentimenti e accenti di gran lirismo, rivelanti il suo forte senso di immedesimazione con gli esuli di quel mondo particolare. Bibi Dalai Pietrantonio, discendente oltre che dei “de Mistura” anche dei “Pietrantonio” di Larino, si è sentita molto vicina all’esodo della comunità ebraica. E considerate l’attenzione, la delicatezza, la partecipazione con cui ne ha scritto, possiamo dire che si è sentita forse più vicina a questo esodo ebraico dall’Italia che non all’esodo italiano dalla Dalmazia, dall’Istria, da Fiume.
Molti di noi, originari di quelle terre, ritrovano con commozione se stessi, o i propri genitori e i propri avi, nei personaggi, nelle situazioni, e nei forti sentimenti d’italianità che emergono dalle pagine del libro. Uno dei meriti principali di questo libro di rievocazioni, è di presentare, attraverso una particolare vicenda famigliare, e dando voce ai testimoni, gli esodi dei dalmati, come anche altri eventi storici di cui si poco si parla e che smentiscono la narrativa ufficiale inneggiante alla “Liberazione”. E in funzione di questo “lieto fine” ufficiale, che vide in realtà il tracollo del nostro paese con una resa senza condizioni e l’amputazione delle terre nostre a beneficio della Jugoslavia, anche tutta la storia antecedente di quelle terre “liberate” continua ad essere vista in Italia attraverso il prisma dei “liberatori” e dei loro precursori. Prisma che dà una versione crudelmente deformata degli eventi di cui noi, originari di quelle terre, siamo stati i testimoni e le vittime.
A questo punto mi riesce impossibile, per quel “Vola colomba” del titolo, non fare una digressione molto personale, parlandovi di un contrasto da me avuto con un universitario di Montréal, Giuseppe Samonà, che nella rivista online “Altritaliani” in uno scritto contro la “retorica patriottarda” di Roberto Benigni si era preso beffe, in maniera veramente indegna, di un altro brano della musica leggera a noi molto caro: “Le ragazze di Trieste” (“La campana di San Giusto”). Aveva scritto questo Samonà: “Mancavano solo ‘Le ragazze di Trieste’, che ci faceva intonare la nostra Maestra, quelle che appunto alla vigilia della prima guerra mondiale cantavano in coro, con ardore: oh Italia, oh Italia del mio cuore, tu ci vieni a liberar!” Non pago, Samonà aveva esaltato il padre di un alunno che avrebbe detto alla maestra: “Sa cosa ci faccio con la sua ‘patria’ e con la sua ‘bandiera’? Aggiungendo deliziato: “Lascio al lettore fantasioso immaginare la risposta.” “Ebbene –replicai io sul ‘Cittadino Canadese’, giornale di Montréal per il quale scrivo da anni – il Samonà sarà sorpreso nell’apprendere che quella stessa canzone, cui lui irride, provoca ancora oggi un’emozione sincera nei discendenti di coloro che sull’altra sponda adriatica credettero, e anche morirono, per quelle speranze e quelle idee. Emozione di rimpianto misto ad amarezza, pensando alle illusioni degli “irredenti” che anelavano ad unirsi agli altri italiani nell’abbraccio di una patria unica. I miei nonni e i miei genitori, e così tanti altri, imbevuti fin dalla nascita d’amore per il tricolore, si trovarono a dover poi fronteggiare, da esuli, dopo il disastro della seconda guerra mondiale, i sentimenti antitetici che imperversavano nel Belpaese, ossia l’avversione per il sentimento nazionale e l’amore invece per la bandiera rossa. Sentimenti ancora tenaci in un’Italia in cui molti, alla propria bandiera, hanno sempre preferito e preferiscono le bandiere altrui.”
Tra i tanti morti, Gianni junior non dimentica in “Vola colomba” i caduti del 1953 per l’italianità di Trieste: Pietro Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia, Antonio Zavadil.
L’Italia è il paese, purtroppo, della messinscena e del trasformismo, in cui il solo sentimento che si riferisca alla nazione coltivato dalle nostre élite culturali odierne è l’antipatriottismo, cui oggi si è aggiunto il globalismo. I sentimenti che furono già del popolo dell’Italia irredenta, ormai disperso ai quattro angoli del mondo, sono difficili da definire senza il ricorso a parole ormai consunte dalla retorica e che invece sono state per i nostri padri come il sangue delle loro vene e come l’aria che respiravano. E che lo sono ancora, pateticamente, per alcuni di noi… L’Italia è divenuta il paese, purtroppo, della messinscena e del trasformismo in cui il solo sentimento che si riferisca al concetto di “nazione”, coltivato dai padroni del discorso, è l’antipatriottismo.
Un momento fondamentale del libro è quando Gianni senior decide di lasciare Trieste per andare a vivere a Zara. Ma riprendiamo le sue tappe ossia il suo “peregrinare”. Spalato, città natale, dove trascorre l’infanzia e la giovinezza. Quindi, nel 1919, da Spalato a Trieste. Poi, negli anni ’30, a Zara, insieme con Amelia e il figlio Dante e Marietta la vecchia madre. “Ma il Dante e sua nonna vivranno in un altro appartamento.” (p. 55) Gianni aveva deciso d’autorità il trasferimento a Zara dove “ci sono solo italiani e tutti dalmati”. (p. 55) Zara, “dopo più di un secolo di soggezione all’Austria (…) si era ricongiunta alla Madrepatria in seguito alla vittoria dell’Italia nella grande guerra”. Era una splendida città borghese e dove gli abitanti godevano di un livello di vita, per l’epoca, quasi invidiabile. Era un’epoca euforica. “La crisi del ’29 non era stata particolarmente percepita.” (p. 72)
Il trasferimento a Zara si rivela un successo: “I clienti venivano da tutta la Dalmazia a farsi curare i denti dall’unico dentista all’avanguardia.” (p. 72) Ma il figlio “Dante è un cruccio. Buon ragazzo ma scapestrato, non va bene a scuola, non vuole studiare!” (p. 74) Gianni, padre severo, usa la cinghia su di lui. Passano gli anni, “Dante, ormai 25enne è iscritto all’università, ma non ha dato ancora un solo esame. Lavora però assiduamente nello studio del padre.” (p. 83) Il figlio minore Beppi, che aveva un carattere forte come quello del padre, non aveva voluto trasferirsi a Zara e “aveva continuato gli studi a Trieste e evitava ogni rapporto con Amelia” che considerava “l’amante” del padre. Anni dopo, si trasferirà a Padova, anche per seguire la sua ragazza, slovena, e lì continuerà gli studi universitari.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Tonci Marussich, un amico zaratino trasferitosi a Venezia, viene a trovare Gianni a Zara e gli consiglia di lasciare quella città per un luogo più sicuro, confermando così le costanti preoccupazioni di Amelia che la guerra, al contrario delle previsioni di Gianni, potesse avere un esito disastroso per l’Italia. Ma Gianni era convinto che gli alleati avrebbero risparmiato Zara, e mai e poi mai l’avrebbero bombardata.
Subito dopo l’annuncio di Badoglio dell’Armistizio “iniziarono in Istria le prime persecuzioni delle truppe comuniste jugoslave a danno degli italiani: uomini che rappresentavano in qualche modo lo Stato o l’autorità italiana, persone innocenti, sacerdoti, donne, persino bambini sparivano.” (p. 92) “Non fu difficile, per i militanti comunisti venuti dai territori interni, suscitare speranze di riscatto morale, sociale ed economico nella povera gente. Gli italiani venivano dipinti come oppressori, borghesi, fascisti: classe da abbattere. L’ideologia trovò spazio facilmente nell’immaginario collettivo delle campagne. E furono stragi.” (p. 92) E fu l’esodo della nostra gente, spesso tra atti di inaudita ferocia compiuti dai “liberatori”, con gli infoibamenti in Istria, e a Zara gli annegamenti con la pietra al collo e gli apocalittici bombardamenti anglo-americani del 1943 sulla popolazione civile. E così “Zara diventò il fantasma di quella bella località che era stata per due millenni.” (p. 97) Anche l’esodo da Pola fu biblico. “Si fuggiva abbandonando tutto, la propria casa, la propria terra, gli averi, gli affetti, persino i propri morti, abbandonati nei cimiteri divenuti terra straniera. Si fuggiva per la paura, per restare vivi, per non essere costretti a imparare una lingua straniera ed ostile, per evitare vessazioni e violenze.” (p. 102).
A Zara fu l’apocalisse. Il primo bombardamento che colpì la città avvenne il 2 novembre 1943, giorno dei morti. “Otto aerei Boston A20 sganciarono più di 5 tonnellate di bombe sulla città. (…) I morti furono 163, i feriti oltre duecentocinquanta.” Le gente “credeva in un errore dell’aviazione anglo-americana” (p. 93) Fu solo dopo il secondo bombardamento, che avvenne il 28 novembre, “una splendida domenica di sole autunnale”, e che era diretto, come il primo, contro la popolazione civile che “Il destino di Zara fu finalmente chiaro a tutti: si trattava di un piano predeterminato voluto per terrorizzare la popolazione e liberare la città dai suoi abitanti italiani.” (p. 94)
Gianni decide allora di partire. Ma nell’attesa della partenza assiste al terzo bombardamento, quello del 16 dicembre 1943, il più devastante. Novantadue tonnellate di bombe furono sganciate sulla città. Furono lanciate bombe incendiarie, la popolazione fu mitragliata dagli aerei piombati dal cielo come uccelli da preda. “I morti non si potevano contare né seppellire” perché erano troppi. Di Pietro, il padre di Gianni, finito sotto le macerie non fu neppure rinvenuto il corpo. Il vecchio padre aveva voluto restare: “Sono vecchio, cosa mi può accadere, anche se arrivano i croati cosa mi possono fare?” (p. 95) Ma il martirio di Zara continuò: altri 51 bombardamenti seguirono. All’olocausto della città dalmata né Cinecittà né beninteso Hollywood si sono mai interessate. Il doloroso addio alla città martire suscita in Gianni il triste motivo “Addio, o nostro picciol desco” della Manon di Massenet.
L’accoglienza che gli esuli ricevettero in Italia, madrepatria tanto amata dagli italiani delle terre “irredente” non fu sempre delle migliori, per volontà soprattutto dei comunisti italiani. “Si raccontavano anche tristi vicende degli esuli che, accusati di essere tutti fascisti scappati dal paradiso comunista per evitare di espiare le loro colpe, subivano trattamenti ostili.” (p. 102)
A Trieste, quando Gianni e Amelia vi arrivano in fuga da Zara, per sfuggire ai bombardamenti e alle uccisioni per mano degli slavi, “gruppi di comunisti locali, italiani e sloveni, si erano fatti baldanzosi e minacciosi, avevano organizzato manifestazioni e cortei” (p. 98). Il peggio non si farà attendere: “Subito dopo il 25 aprile, le truppe jugoslave ai comandi di Tito avevano preso possesso della città. Migliaia di cittadini furono massacrati, scomparvero, furono gettati in foiba.” (p. 101)
Gianni senior si sposta subito a Padova dove risiede Dante, suo figlio, poi decide di stabilirsi ad Asiago, aprendo un piccolo studio dentistico. Qualche altro spostamento, questa volta in Lombardia, infine di nuovo Trieste.
Questo sorprendente piccolo capolavoro riporta in vita, attraverso una scrittura ricca, agile e delicata, vibrante spesso di emozioni e soffusa di malinconia, una cronistoria di famiglia cui si intrecciano eventi storici per noi dolorosi; ignorati o distorti invece dalla vulgata manichea di cui noi, profughi o discendenti dei profughi quelle terre, siamo da anni vittime, perché la nostra sofferta italianità è etichettata nella penisola come “fascismo”. Figure, le nostre “ambivalenti” per il sentire dell’italiano medio cui riesce difficile afferrare la nostra precisa identità (slavi? italiani?) e con cui quindi gli riesce difficile identificarsi.
“Vola colomba” è un libro “intriso” di Storia, perché le vicende dei singoli, in quelle terre in cui si confrontano italiani e slavi, sono spesso connesse ai profondi sommovimenti collettivi, politici, culturali e sociali, che occorsero in quei periodi. E occorre risalire nel tempo per misurare la variazione degli equilibri tra le due etnie, slava e italiana.
La fine della dominazione veneziana e l’inizio di quella austriaca causano dei cambiamenti nei rapporti di forza tra questi due gruppi, entrambi autoctoni di una terra dove vivevano mescolati tra loro “austriaci, tedeschi, slavi, italiani, ungheresi. Ma anche greci, macedoni.” (p. 28). La versione che ci viene spesso data degli eventi di quel tempo trascura o addirittura ignora certe pagine fondamentali di storia. Prendiamo la decisione di Francesco Giuseppe di favorire l’elemento slavo a danno di quello italiano. Fu dopo la battaglia di Lissa, quando l’italianità aveva come punto d’attrazione uno stato reale, mentre gli slavi non potevano ancora contare su una nazione slava indipendente. Questo primo esodo e gli eventi ad esso collegati spiegano molte pagine della storia successiva, di cui oggi si ha una versione mutila al servizio del manicheismo ormai irrimediabilmente invalso.
Il disastroso finale della Federazione jugoslava, costruzione artificiale, edificata anche sulle ossa dei nostri morti, e crollata ignominiosamente tra violenze inaudite, confermanti la tradizionale ferocia guerriera balcanica, avrebbe dovuto mettere fine alla vulgata “progressista” – leggere “di sinistra” – antitaliana. Inoltre, la grottesca propaganda portata avanti dalla Jugoslavia titoista, modello di socialismo, di autogestione e di equidistanza, che distribuiva nei vari forum attraverso il mondo il “libretto d’istruzioni” ideologico per superare i meschini nazionalismi, gli egoismi borghesi e i conflitti etnici, dovrebbe oggi suscitare sarcasmi, forse crudeli ma più che legittimi, e che sono invece totalmente assenti.
Ma la storia non la scriveranno certo i vinti e accanto a certe patetiche cantonate di “storici” che attribuiscono al fascismo i toponimi italiani delle nostre terre, e accanto ai negazionisti delle foibe, invitati a dare conferenze in coincidenza con certe date luttuose per noi, abbiamo le “autorità responsabili” italiane che ancora oggi esaminano, contrite, le continue richieste di risarcimenti per l’incendio del Narodni Dom di Trieste, avvenuto nel 1920, di cui la versione pro-slava sembra fare, presso i nostri governanti nazionali, l’unanimità. La vulgata slava vuole che i fascisti, o protofascisti, nel luglio del ‘20 incendiassero la sede del centro culturale sloveno, per odio dell’elemento slavo. Ancora oggi, ad ogni anniversario di quell’incendio, si ritorna a propagandare la versione degli eventi cara al vittimismo slavo. Mai che venisse ricordato il contesto storico in cui la presunta distruzione avvenne, con l’uccisione, il giorno prima, di due italiani a Spalato (il comandante della nave Puglia Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi), e l’accoltellamento mortale di Giovanni Nini a Trieste da parte di un individuo che poi si rifugiò nel centro culturale degli sloveni. Lo stesso incendio, secondo una versione assai credibile, fu appiccato dagli stessi slavi. Gianni Grigillo che partecipò di persona alla manifestazione del 14 luglio 1920 reagirà con rabbia alla falsificazione successiva degli eventi: “ Ho visto io – si scaldava Gianni nel continuare il racconto – partire dall’Hotel Balkan i proiettili e le bombe che uccisero il povero Casciana! [il sottotenente Luigi Casciana comandava il cordone di soldati che si erano schierati a difesa dell’Hotel Balkan per garantire l’ordine e fermare certi scalmanati]. Io con i miei occhi! Cosa mi viene a raccontare questo provocatore!? Altro che fascisti: a incendiare l’edificio non furono i fascisti, che poi, nel ’20, ancora non esistevano. L’incendio scoppiò dal secondo piano, cioè dalla sede del Narodni Dom, che non era solo un centro culturale, ma evidentemente, un covo di violenti nazionalisti, un deposito di armi, di munizioni, una vera e propria Santa Barbara.” (p. 116)
Preziose, perché contenenti verità oggi ignorate, sono anche le pagine consacrate a ricordare le violenze e gli assassinii commessi negli anni ’20 contro gli italiani rimasti nei territori ceduti alla Jugoslavia (p. 26). “Episodi di violenza e pestaggi a danno di italiani a Zara, Ragusa e in altre città della Dalmazia, ma a Spalato… a Spalato è stato peggio non si poteva più vivere. O per lo meno non si poteva più vivere da italiani.” (p. 27)
Ecco cosa ci racconta “Vola Colomba” sulla delusioni dei dalmati italiani di Sebenico e di Spalato: “Le potenze alleate che avevano dichiarato guerra all’Austria-Ungheria nel 1915 patteggiarono l’ingresso dell’Italia nel conflitto promettendo che, in caso di vittoria, la nostra patria si sarebbe vista assegnare, oltre a Zara, anche Sebenico e altre città della costa dalmata, con le rispettive isole antistanti. Questo accordo fu sottoscritto a Londra il 26 aprile 1915 e l’Italia entrò in guerra pochi giorni dopo, il 24 maggio, forte di tale patto che rimase segreto fino a quando il nuovo governo dei Soviet, che era stato installato in Russia in seguito alla rivoluzione leninista, non lo rese pubblico. Queste clausole territoriali, una volta pubbliche, scatenarono la violenta opposizione degli slavi costituitisi nel nuovo Stato dei Serbi-Croati-Sloveni (S.H.S.) e alleati alle forze vincitrici. La definizione dei confini orientali d’Italia, così come voluta dalle forze vincitrici, scontentò sia una parte, defraudata delle terre promesse a Londra, che l’altra, che lamentava la perdita di Zara, città fortemente voluta dai croati. Particolarmente delusi rimasero i dalmati italiani di Sebenico e Spalato, le maggiori due città dalmate, molti dei quali non rinunciarono a sognare la redenzione di quei territori.” (p. 83)
La versione corrente degli eventi di quelle terre omette certe pagine fondamentali della nostra storia. Prendiamo la decisione di Francesco Giuseppe di favorire l’elemento slavo a danno di quello italiano. “Con la nascita del regno d’Italia nel 1861, ed ancor più dopo che l’Austria dovette cedere il Veneto, nel 1866, le popolazioni appartenenti alla nazionalità italiana ancora soggette all’Austria, desiderose di congiungersi alla madrepatria, divennero elemento infido e temuto dagli Asburgo che vararono una politica di chiara ostilità nei confronti dei sudditi già appartenenti alla Serenissima Repubblica di San Marco, attentando direttamente alla loro identità nazionale.” (p. 22) E ancora: “L’imperatore Francesco Giuseppe, soprattutto dopo la sconfitta degli italiani a Lissa, ordinò esplicitamente la germanizzazione del Trentino –Alto Adige, e la slavizzazione dei territori della Venezia Giulia, della Dalmazia, da attuare mediante l’occupazione dei posti pubblici, amministrativi, giudiziari, scolastici da parte di cittadini appartenenti alle etnie più fide, come quelle tedesche in Alto Adige e slovene e croate in Istria e Dalmazia, cittadini che in questo secondo caso , non avevano uno Stato di riferimento al quale aspirare di riunirsi.” (p. 22)
Gli slavi, invece, non potevano ancora contare su una nazione slava indipendente che fungesse da polo attrattivo per il loro nazionalismo. Quindi essi vennero favoriti dall’Austria che mirava a contenere e a ridurre la forza degli italiani, ben più pericolosi con l’irredentismo. Secondo gli slavi, gli irredentisti italiani “volevano mantenere quella posizione di privilegio culturale e politico che avevano avuto per secoli, a danno delle popolazioni slave, altrettanto autoctone, durante la dominazione veneziana.” (p. 27) Ci pensò Vienna a far cessare il “privilegio”. Gli obiettivi perseguiti dai funzionari imperiali furono “di vera e propria snazionalizzazione e di sostituzione etnica, favorendo la promozione a posti dirigenziali dell’elemento slavo, operando trasferimenti amministrativi che comportarono spostamenti territoriali di intere famiglie ed imponendo leggi e misure contrarie alle tradizioni ed agli interessi italiani.” (p. 22)
Nonostante certi risentimenti contro l’etnia rivale provati da Gianni senior, il protagonista – di “sangue dalmata” e di “educazione austriaca” – “Vola colomba” non è un’opera in bianco e nero dove i buoni sono tutti allineati da una parte. Dopotutto, “A Spalato e in tutta la Dalmazia, per generazioni, erano esistiti buoni rapporti, famiglie miste, incroci. Per secoli.” (p. 27)
Gli autori riescono con semplicità e tanta verità a rappresentare il ricco, complesso, straordinario mondo “veneziano-balcanico” dai tanti mutamenti nel tempo. I dalmati italiani appartenevano a questa realtà antropologica, varia etnicamente e culturalmente, ricca di tradizioni, lingue, sentimenti e idee, connessa sia all’Italia sia alla cultura slava; realtà multietnica e multiculturale che il dirompente nazionalismo comunista, con la forza e la brutalità di un rullo compressore, appiattirà snaturandolo attraverso il tragico esodo forzato dell’elemento italiano autoctono. E riuscendo, attraverso i cambiamenti di nomi e la riscrittura della storia e il silenzio tombale sul passato italico, a mutilare gravemente la memoria storica collettiva. Tutto ciò tra l’indifferenza o addirittura il plauso compiaciuto della sinistra italiana, per anni inneggiante a Tito, e che a casa propria è antinazionalista ma grande amica dei nazionalismi altrui.
Io ho provato una forte identificazione con gli autori di “Vola colomba” nel leggere certe preziose loro pagine, mirabilmente scritte, delicate e sprovviste di sentimenti di odio o di disprezzo o di vittimismo. In particolare io ho ritrovato idee e passioni a me care in certe pagine di Gianni junior, in cui questi esprime i valori, i sentimenti e l’ottica degli italiani di quelle terre. Ecco, ad esempio, un concetto per noi fondamentale, da me udito innumerevoli volte dalla bocca dei miei genitori, ed espresso da Gianni junior semplicemente così: “L’italianità, da quelle parti, non era un fatto di sangue, ma spesso una scelta culturale, una scelta di appartenenza.” (p. 28) E ancora: “La scelta (…) era un esercizio che quelle popolazioni erano avvezze a fare fin da giovani, perché l’appartenenza non era questione di razza, di nome, o di sangue , ma, appunto, di scelta. Qualche volta dolorosa e irreversibile, in amore come in politica, sapendo subire con dignità le sofferenze che ne conseguirono.” (p. 12) Vere ma tristi parole che mi hanno fatto riapparire vivi dal buio del passato i miei compianti genitori e il loro doloroso fardello di fedeltà insopprimibili ad un’italianità nobile e che, da profughi, nello Stivalone, si trovarono poi confrontati ai propagandisti e sostenitori dei nostri aguzzini e infoibatori, e agli esponenti delle nostre élite “progressiste” ammalate di ideologismo e di bandiere rosse.
In quelle terre, i cognomi, che fossero di assonanza slava o di assonanza italiana, non indicavano necessariamente il vero sentimento identitario di chi li portava. Anche perché essi sono stati talvolta modificati nel corso del tempo. Il fascismo volle italianizzarli nelle terre di confine, tra cui in Istria – come un po’ tutti in Italia e forse anche nel resto del pianeta ormai sanno – ma vi erano anche nomi che, in epoca anteriore – cosa meno nota – erano stati slavizzati in conseguenza della politica antitaliana e pro-slava perseguita dall’Austria, attraverso le amministrazioni locali e le parrocchie affidate all’elemento slavo, immancabilmente nazionalista. “La politica italofoba dei croati venne sostenuta dall’amministrazione asburgica non solo in maniera decisiva nelle elezioni locali in Dalmazia, negli atti del catasto, nella toponomastica originaria e anteriore a quella slava, ma anche rinunciando a far intervenire la polizia contro le intimidazioni e le violenze perpetrate dagli slavi ai danni degli italiani. Le sopraffazioni dei nazionalisti croati divennero ordine del giorno in Dalmazia.” (p. 24)
Diversi cognomi italiani saranno in seguito slavizzati nella Jugoslavia di Tito. Ho potuto constatare la cosa direttamente incontrando alcuni portatori di nomi “riveduti e corretti”. Ma su ciò si scrive assai poco. Cosa volete, sono cose che non interessano molto in Italia, dove oltre tutto, ne sono sicuro, molti cambierebbero volentieri il proprio cognome italiano per averne uno un po’ più esotico.
Sui nomi originari dei luoghi è stato posto un sudario nero e cementato su di essi i toponimi slavi, alacremente adottati anche in Italia, quasi che la forte componente veneto-italiana addirittura millenaria di quei luoghi, espressa del resto dal loro nome, non fosse stata altro che un’invenzione propagandistica del fascismo.
Ecco, la brutta parola è fuoriuscita: fascismo. Ma bisogna ammettere che il personaggio intorno a cui tutto ruota, Gianni senior, è proprio un fascista, un fascista irriducibile. Noi abbiamo qui un’occasione preziosa per vedere in cosa dopotutto consistesse il famigerato fascismo di tanti giuliano-dalmati, di quello della gente comune, non direttamente implicata nella politica per intenderci, e della quale Gianni senior può assurgere a rappresentante.
Sui sentimenti patriottici italiani del personaggio non esistono dubbi: sarà sufficiente menzionare il nome dei suoi due figli. Uno si chiama Dante, come il sommo poeta. Gianni senior spiega ironicamente, “non si può croatizzare quel nome!” (p. 38). L’altro, che sarà conosciuto semplicemente come Beppi ossia Giuseppe, risulta registrato all’anagrafe come “Giuseppe Garibaldi”. “Doveva essere Giuseppe, ma un Giuseppe che più italiano di così non si può.” (p. 38) La sua prima figlia, morta di spagnola nel 1919, a sette anni, si chiamava Fedora, nome tratto dal “libretto del nostro Arturo Colautti, dalmata, di Zara” per il dramma musicale “Fedora” di Umberto Giordano, (p. 40). Amelia giudica questi sentimenti del suo compagno “un’italianità ossessiva”.
Una digressione: sarebbe troppo lungo ritrascrivere solo una parte delle tante citazioni musicali che infiorano questo libro. Mi permetto però una nota personale. Sia il nome di mia madre, Gioconda, sia quello dei suoi fratelli furono scelti anch’essi in omaggio ai personaggi dei drammi operistici di cui il mio nonno materno, nato a Pinguente, era un appassionato. Anche i miei genitori dimostrarono sempre un profondo amore per la lirica. Ma forse questo era un amore musicale non solo della nostra gente, ma di gran parte degli italiani di quel tempo.
Non molto spazio è dedicato da Gianni junior nel libro ad una scelta di suo nonno, Gianni senior, rivelante coraggio, coerenza, fedeltà nazionale. Si limita a dar la parola a quest’ultimo, dialogante con Amelia: “Nel ‘15 partii volontario in marina. Sissignora! Volontario, ma in quella italiana! Disertore. Se mi avessero preso gli austriaci sarei stato impiccato, come Fabio Filzi. Avrei potuto trovarmi di fronte a mio zio Toni, nemico, arruolato nella marina austriaca.” (p. 40) Trascurando la lettura di queste importanti righe si rischia di rinunciare a un elemento fondamentale di giudizio su questo rappresentante del nostro tipo particolare di patriottismo, non molto diffuso in Italia, patria della retorica e delle parole auto-nobilitanti, ma molto diffuso invece tra la nostra gente di frontiera: un patriottismo fatto di cose e non di chiacchiere. Il figlio Dante, coraggioso quanto il padre, partirà anche lui volontario, quando l’Italia entrerà in guerra nel 1940. (p. 83) Del resto il sentimento comune spingeva tutti i giovani zaratini a partire volontari. Il non andare “volontario” era assimilato ad una viltà, quasi a un tradimento della Patria. Una tale dedizione all’Italia è oggi difficile da credere, eppure è una certezza storica.
Quell’arruolamento in marina si rivelò una fortuna per Gianni senior “Come infermiere mi applicarono al servizio medico. Il colonnello mi prese al suo fianco per la mia esperienza e m’insegnò un mestiere. Era un bravissimo dentista, docente all’università di Genova. Imparai così bene che mi volle come suo allievo.” ( p. 41) Frequentò qualche corso, fece qualche esame… e divenne dentista. Un dentista molto serio, molto bravo, scrupoloso, occorre precisare.
La nostra dedizione alla patria italiana non si limitava di certo alla scelta dei nomi per il figli, elemento comunque anche questo importante, ma ci obbligava a scelte anche estreme. Cos’altro dire sul fascismo di Gianni senior? Potremmo semplicemente dire che il fascismo della gente della Venezia Giulia e della Dalmazia stenta a rientrare nel rigido quadro in cemento armato costruito dagli addetti ai lavori, i quali da anni ingigantiscono e rafforzano il muro tra gli italiani, morti e vivi. Lavoro faraonico di cui, a quasi un secolo dalla “Liberazione”, non si intravvede la fine.
Gianni junior ha avuto un nonno “fascista”, io ho avuto un padre e una madre di sentimenti “fascisti”, smentita in carne ed ossa, i miei genitori, della denigrazione di cui è stato fatto oggetto, con la saggezza e i vantaggi di poi, il profondo sentimento d’italianità della nostra gente, che ha dovuto dalla fine della guerra ad oggi subire gli effetti della distorsione del senso ormai dato a certe parole, tra cui appunto la parola “fascismo”. Ma italianità e fascismo coincidevano per molti delle nostre terre mai macchiatisi di atti di violenza nei confronti dell’elemento slavo né di chicchessia altro. Ma facciamo parlare l’interessato, anzi l’accusato. “Fascista io? Come tutti gli italiani. Non ho avuto incarichi pubblici né amministrativi, non ero un gerarca. Fascista, sì, quello sì, come tutti. Solo che io non ho cambiato bandiera.” E ascoltiamo adesso, la testimonianza del nipote, Gianni junior, coautore del libro: Il nonno “credeva fermamente in Mussolini ed era sicuro che il Regime fascista si sarebbe perpetuato formando, come stava facendo, un società virile, onesta, incorruttibile, prospera. L’Italia aveva assunto il suo giusto ruolo tra le nazioni dell’occidente e aveva raggiunto la dignità e il rispetto che la Storia le doveva. Mancava ancora la riconquista delle terre di Dalmazia perdute nonostante la vittoria nella Grande Guerra, ma la rassegnazione prevaleva sulla aspirazione perché quei territori erano ormai definitivamente occupati solo da slavi.” (p. 77)
L’errore di Mussolini, per Gianni senior, è stato l’alleanza con Hitler. “Dopo l’assassinio del primo ministro Dolfuss, nel ‘34, doveva capire con chi si era alleato! E prenderne le distanze.” “Ma bisogna saper stare da una parte anche quando si sbaglia. Siamo italiani, tutti italiani, quando si vince e quando si perde… e anche quando si sbaglia. (p.102)
All’inizio del conflitto, Gianni “era convinto che la guerra sarebbe durata pochi mesi. L’Italia, alleata alla Germania, si sarebbe seduta al tavolo dei vincitori e avrebbe tenuto la restituzione delle terre italiane di Dalmazia che le forze vincitrici della Prima Guerra Mondiale avevano preteso di assegnare alla neonata Jugoslavia, violando il patto di Londra.” (p. 83) E Gianni e gli altri dalmati dell’esodo sarebbero tornati a Spalato. Da Italiani.
La sconfitta della patria metterà fine a questi sogni di gloria, e Gianni invecchierà “silenziosamente a Trieste, avvilito per il decadimento generale del sentimento di patria che coinvolgeva tutta la nazione, per l’antipatriottismo diffuso, per l’esaltazione della sconfitta, per la rinuncia della classe politica a qualsiasi rivendicazione delle terre perdute e, persino, per la rinuncia alla verità storica che aveva segnato il destino di quelle terre, accontentandosi, dopo tanto peregrinare, di poter vivere a Trieste, città eletta a luogo natale, felice che anche questa città non gli fosse stata strappata, dopo essere stato costretto a lasciare quella natia, Spalato, dopo aver dovuto forzatamente abbandonare Zara, anche questa città ormai perduta per sempre.” (p. 120)
Sono stato di recente in Istria, a Pola, città dove tutto parla d’Italia; mi riferisco all’architettura e alla storia. Eppure non un solo cenno all’Italia viene fatto nella registrazione, apprestata per i turisti, che si ascolta nell’autobus che li porta attraverso la città e nei dintorni. A Pisino, dove sono nato, la parola Pisino è stata espropriata a profitto di Pazin, ovunque. E in Dalmazia la “repubblica di Dubrovnik” ha rimpiazzato retroattivamente la “repubblica di Ragusa”.
Molto di recente ho letto un servizio sui Balcani, nel prestigioso “Le Monde diplomatique”. Nel lungo articolo, due prestigiosi studiosi francesi analizzano i numerosi cambiamenti avvenuti in quell’area (Istria, Fiume e Dalmazia incluse), negli ultimi secoli. Gli autori mai menzionano l’Italia. Non una volta. Dopo aver letto con sorpresa e con sdegno quella ricostruzione storica, aggirandomi nella biblioteca pubblica in cui mi trovavo ho messo le mani, per caso, su un libro di Jules Verne in cui era riprodotta una carta geografica dell’epoca in cui tutte le nostre località erano menzionate con il loro nome d’origine: il nome italiano. Come avviene in tutte le carte geografiche di epoca antica, ben anteriore al ventennio fascista. Ma oggi nelle carte geografiche redatte in Italia abbiamo per quelle stesse località il nome slavo, e così al posto di Pinguente, Buzet, e di Pisino, Pazin, e di Pola, Pula, e via tristemente seguendo.
Questo straordinario racconto di vita vissuta è un tessuto così ricco di eventi famigliari, di testimonianze, di ricordi, di motivi politici, di messe a punto circa una storia ufficiale lacunosa o falsificata, che persino un grosso volume non sarebbe bastato a contenere l’ampia trattazione cui quel mondo perduto avrebbe diritto. Il tema musicale che troviamo persino nel titolo con quel “Vola colomba”, ma che è ripreso come un controcanto o come pausa evocatrice attraverso le pagine di questo magnifico libretto, rende alla nostra anima l’essenza di una dolorosa storia ignota ai più, non solo, ma falsificata e distorta e che rivive nelle nostre emozioni come un motivo musicale, un canto, un’opera scenica, quintessenze di una realtà che non è più fisica ma che appartiene ormai all’anima.
Talvolta mi domando con tristezza cosa non si direbbe di ancor peggio sui nostri padri, nativi di quelle terre, se non avessimo noi una conoscenza profonda di tanti fatti storici, con la testimonianza dei nostri genitori e dei nostri nonni su fatti e eventi, purtroppo deformati dal manicheismo ormai irrimediabilmente invalso, tanto caro alle nostre élite di sinistra che ci vogliono tenere inchiodati al ruolo di fascisti invasori che furono finalmente respinti, per merito dei nostri gloriosi “Liberatori”, dalle terre “jugoslave”, da noi usurpate.
Ma non bastano le testimonianze di tanti di noi, gente comune, e neppure quella di personaggi celebri come Sergio Marchionne e Staffan de Mistura, che hanno avuto membri della propria famiglia infoibati, per tacitare coloro che nella penisola, tra cui l’ANPI, insistono nel loro odio contro di noi. No, non bastano i sofferti resoconti di personaggi anche celebri – i Luxardo ad esempio – per ridare luce e verità a un passato fino a ieri ignoto e ancora oggi sottaciuto o interpretato attraverso la lente deformante di un ideologismo oggi trionfante. Ideologismo sfrenato che, tra la nostra élite culturale, in Italia, è di segno antitaliano. Infatti, in questo nostro strano paese, dove trionfano campanilismi, faziosità e odi civili, un normale sentimento di amor patrio è visto da molti come una degenerazione dello spirito. Eppure il nazionalismo nostro, di noi esuli della Venezia Giulia e Dalmazia, non ha espresso dalla fine della guerra ad oggi neanche un atto di violenza. Nessuno, del resto, tra noi rivendica la riconquista delle terre perdute… I nostri “estremisti” semplicemente commemorano i loro morti, e piangono soprattutto la “morte della patria”.
Ebbene un libretto così umano, di vita vissuta, ma anche di divulgazione storica del passato storico di quelle terre, ove trovasse una certa diffusione, permetterebbe a molti di cominciare ad avere dei dubbi sulla comoda “vulgata” che va per la maggiore, e che il palinsesto televisivo e la cinematografia hanno però cominciato ad intaccare attraverso documentari, lavori teatrali (grazie, Simone Cristicchi!) e film che finalmente hanno dato un po’ di voce al popolo che fino a ieri, ufficialmente, non esisteva.
Un commosso pensiero va alla memoria di Gianni senior, rimasto sulla breccia fino all’ultimo. Ed è il nostro Gianni, Gianni junior, il suo erede morale, che in una soleggiata domenica soleggiata di metà settembre 1967 ricevette il ferale annuncio al telefono, mentre era a Bergamo, in casa dello zio Beppi: “El vecio xe morto”.
Claudio Antonelli