Abbiamo imparato dai libri di storia, che l’entrata in guerra, nel 1940, fu un gravissimo errore, perchè il popolo era decisamente contrario. Una “guerra non sentita”, quante volte abbiamo udito pronunciare questa frase, ma se davvero fosse stato così, come si spiegherebbe l’afflusso delle migliaia di volontari agli uffici di arruolamento? Molti di loro in seguito divennero protagonisti della Resistenza, ma questo solo parecchio tempo dopo, cioè quando i risultati bellici dell’Italia cominciarono a essere deludenti.
Ignazio Vian, divenuto poi un capo partigiano, quando ancora “credeva” nella guerra fu ritenuto inabile per il servizio al fronte e volle sottoporsi a un intervento chirurgico per rimuovere le cause di tale esonero e assicurarsi di poter partire.
Carlo Oberti, proprio colui che sostituì Vian al comando della brigata partigiana cui appartenevano, dopo che lo stesso era stato giustiziato, prima di diventare un dissidente, si era arruolato volontariamente, aveva frequentato la scuola militare di Aosta e, divenuto ufficiale degli alpini, andava orgoglioso del risultato conseguito, poichè aveva superato una dura selezione.
“Il 28° corso forte all’inizio di 800 allievi, vide varcare l’uscita della caserma di Bassano del Grappa da appena 250 sottotenenti…”(Venti mesi di lotta alle falde della Bisalta – Carlo Oberti)
Lo stesso Benvenuto (Nuto) Revelli, altro partigiano, fu tra coloro che vollero partire volontari, destinato al fronte russo si guadagnò anche una Medaglia d’Argento, salvo poi tornare e impegnarsi coi suoi libri a raccontare la storia sostenendo i valori della guerra partigiana e “della democrazia”.
“Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione” e siamo d’accordo, ma è il voler rinnegare a ogni costo le scelte compiute che fa di noi dei vili.
Giorgio Bocca nell’agosto del 1942 scriveva sulla pagine della Provincia Grande:
“sarà chiara a tutti, anche se oramai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”.
Anche Giovanni Spadolini che tutti abbiamo conosciuto ministro, non solo aveva approvato la guerra, ma in seguito aveva aderito alla Repubblica Sociale e, nel marzo del 1944, scrivendo sul periodico fascista “Italia e civiltà” si scagliò contro i traditori, quelli che riteneva:
“Italiani per errore, senza midollo, senza nervo, senza dignità, senza stile (…) soddisfatti della propria impotenza e viltà”.
Per non parlare del nostro Presidente della Repubblica emerito che da giovane studente universitario nel 1941, militò nei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) collaborando attivamente come redattore alla rivista universitaria “IX Maggio”. Nel suo libro “Dal PCI al socialismo europeo”, ha giustificato tale adesione spiegando che era il solo modo per studiare meglio e sostenendo che in quell’ambiente: “L’organizzazione degli universitari fascisti era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste mascherato e fino a un certo punto tollerato”.
Napolitano in realtà doveva essere, all’epoca, un po’ indeciso diciamo:
“Io deluso e confuso, mi misi da parte, mi presi un periodo di riflessione.”
Racconta ancora nella sua autobiografia che dopo la caduta del Fascismo, si ritirò a Capri, dove collaborò con l’American Red Cross, un servizio di cui non andava molto orgoglioso dopo il 1945, quando si iscrisse al PCI e fu molto più vicino come pensiero ai sovietici che agli americani. A conferma di ciò lo ricordiamo, nel 1956, tra i sostenitori dell’invasione dell’Ungheria da parte dei russi che chiamò i “liberatori di Budapest”.
Occorre ora fermarsi un attimo a pensare quanti giovani con poca preparazione culturale, vennero affascinati dalle parole dei sapienti giornalisti come Bocca, e furono trascinati dalla loro propaganda ad arruolarsi, a seguire l’esempio dei Revelli o dei Vian, partiti volontari, ma si trovarono poi, alla resa dei conti, a essere additati, come criminali, dagli stessi che li avevano incitati. Per loro che portarono fino in fondo la scelta effettuata, nessuna pietà, nessun revisionismo, furono dimenticati, irrisi, cancellati, e uccisi varie e varie volte dalle reinterpretazioni storiche fatte negli anni dagli studiosi, dagli scrittori, per giustificare il tradimento e il cambio di fronte.
Ognuno avrà fatto i conti con la propria coscienza, ma sicuramente oramai si è capito che la “illuminante spinta alla ricerca della democrazia” e il conseguente viscerale antifascismo, in molte persone, nacque soltanto in concomitanza coi fallimenti militari di Mussolini e fu solo allora che la guerra divenne “non sentita”.
Furono molteplici i casi in cui gli uomini al cambiare del vento cambiarono camicia.
Comincerò citando Davide Lajolo che, nel libro autobiografico “Il voltagabbana”, racconta la sua esperienza cercando di spiegare perchè abiurò il fascismo per passare con i partigiani. Figlio di contadini piemontesi aveva aderito con entusiasmo al primo Fascismo e si era arruolato volontario per la guerra di Spagna. Era stato anche funzionario della federazione fascista di Ancona, Muti stesso gli aveva offerto la promozione a federale, ma lui aveva scelto la carriera giornalistica, però allo scoppio della guerra era partito un’altra volta volontario per l’Albania diventando capitano. Quando dopo il 25 luglio ’43, vide molti dei suoi superiori togliere i quadri di Mussolini dagli uffici, capì immediatamente che il vento era cambiato e si rifugiò al suo paese, dove in seguito aderì alla lotta partigiana e dove ugualmente fece una brillante carriera diventando un famoso capo e soprattutto un fervente comunista. Dopo la guerra infatti l’ex fascista divenne direttore de “l’Unità” e fu deputato del PCI per diverse legislature.
C’è da chiedersi se lui, come tanti altri, sarebbe diventato comunista convinto con un andamento favorevole della guerra e con Mussolini in vita.
La risposta è no.
Fino al 1942, non esisteva in Italia nessuna vera opposizione al Fascismo, lo ribadisce anche Roberto Vivarelli nel suo “Fascismo e storia”
“Solo di fronte al drastico rovesciamento della situazione militare, (…) il sentimento pubblico subì da noi un sempre più rapido cangiamento…”
I dissidenti si moltiplicarono dopo l’armistizio e, per farsi riconoscere antifascisti nel dopoguerra bastò raccontare di non aver militato nella Repubblica sociale, come se i vent’anni precedenti non fossero esistiti.
Ci si riempie la bocca di parole come libertà e democrazia, termini abusati quando a ogni celebrazione la “Resistenza” non manca di sottolineare l’impegno sostenuto per il raggiungimento della “libertà” dalla dittatura fascista, dittatura di cui quasi nessuno si era lamentato prima.
In realtà non fu tracciata nessuna linea per il futuro del Paese, più semplicemente, alla caduta di Mussolini, tutti furono arsi dalla bramosia di raggiungere ciascuno per proprio conto e prima degli altri, il traguardo del potere. Con questi abietti scopi tanti, troppi, dimenticarono l’onore, le scelte precedentemente fatte e si schierarono a piè pari dalla parte opposta dimenticando amici e colleghi.
Il numero dei partigiani crebbe vertiginosamente negli ultimi mesi di guerra, prendendo per buone le cifre indicate da Bocca nel suo “Storia dell’Italia partigiana” se ne contarono: “10-15mila nell’inverno del 1944” che divennero “80mila a marzo 1945” per schizzare a “250mila all’indomani della “liberazione”, il maggior numero dei combattenti partigiani dunque uscì a guerra finita.
Durante il Fascismo Giuseppe Bottai ebbe fra i collaboratori nella sua rivista “Primato”, penne prestigiose come Biagi e Montanelli, Montale, Pavese e Quasimodo, Ungaretti, Carlo Emilio Gadda e Guttuso, solo per citare alcuni nomi noti della cultura del dopoguerra, che furono tutti fascisti convinti, così come molti di loro, rinnegando ogni militanza, divennero antifascisti privi di dubbi e di incertezze.
Elio Vittorini, per esempio, era stato addirittura uno squadrista, aveva partecipato giovanissimo alla marcia su Roma, aveva inneggiato al Fascismo per tutta la durata del regime, poi improvvisamente diventò un intellettuale di spicco del PCI e in un suo racconto ebbe a chiamare “figli di stronza” coloro che avevano aderito alla Repubblica Sociale.
Inutile e alquanto penoso per me sarebbe stilare l’elenco dei fascisti “pentiti” non posso però non raccontare brevemente la storia del famoso premio Nobel Dario Fo.
Arruolatosi volontario appena diciottenne, fu fascista prima militando nella contraerea e poi paracadutista, battaglione Mazzarini, durante la Repubblica Sociale. Nel dopoguerra si schierò apertamente contro il Fascismo e negli anni settanta ebbe, insieme alla moglie Franca Rame, a sovvenzionare, promuovere e proteggere l’organizzazione “Soccorso Rosso” che foraggiava e aiutava gli extraparlamentari di sinistra a fuggire dopo aver compiuto stragi come quella del “rogo di Primavalle”, ma questa è un’altra storia.
Dicevo che nel 1977 un quotidiano del Nord raccontò i suoi trascorsi da fascista. Il grande Dario Fo, negò ogni addebito, sporse querela contro il giornale che lo aveva a suo dire diffamato, arrivò a spergiurare di aver aderito alla RSI solo per effettuare una specie di lotta partigiana da “infiltrato”, ma le prove e le testimonianze addotte dal direttore chiamato in causa, furono schiaccianti e venne stabilito con certezza che non era stato partigiano, che aveva operato come soldato della RSI compiendo anzi rastrellamenti in Val Cannobina. Ci fu la testimonianza del suo comandante e venne mostrata anche una fotografia che lo ritraeva insieme ai suoi commilitoni. Il tribunale sentenziò che:
“è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani”.
Dario Fo non ricorse in appello.
Nel libro”Per amor di Patria” di Antonio Leggiero si legge la testimonianza di Marco Fonzi, un soldato che come l’illustre letterato di cui sopra, militò nella RSI, ma al contrario di questi non si vergogna di raccontare la sua storia:
”…Dopo l’8 settembre, andai ad Ascoli e mi arruolai nella Guardia Nazionale Repubblicana. Eravamo in seicento pieni di amor patrio e di entusiasmo e fummo impegnati in azioni di rastrellamento contro reparti partigiani(…)”
In un crescendo di emozionanti azioni il racconto arriva alla fine della guerra quando Marco Fonzi a soli 22 anni, fu arrestato insieme ai suoi commilitoni e accusato di collaborazionismo. Assolto venne reclutato nelle forze della nascente Pubblica Sicurezza, dove si trovò come colleghi: “…uomini delle brigate partigiane comandati dal capitano Dal Sasso detto il Cerbero…”
Per insubordinazione al superiore, ex partigiano, cui non riconosceva autorità, venne più volte punito fino al giorno in cui gli fu ordinato di andare a rendere gli onori alla brigata Garemi:
“Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Scaraventai il mitra a terra e dissi che piuttosto avrei sparato addosso a chi aveva ucciso tanti nostri camerati gettandoli nelle foibe di Tonezza e Asiago. Fui cacciato dalla polizia…”
La famiglia di Marco Fonzi aveva pagata cara l’adesione al Fascismo: il padre era morto a Varese ufficiale della GNR, il fratello era caduto come soldato della X Mas, la sorella di diciassette anni fu vittima dei partigiani e lui “…da quel momento ho avuto tante traversie, a cui accenno soltanto, perchè collegate con quella mia scelta di tanti anni fa”.
Di Dario Fo tutti hanno sentito parlare, è stato esaltato dalla sinistra nel dopoguerra, di Marco Fonzi, illustre sconosciuto, bisogna trovare notizie in quei libri che nessuno conosce e promuove.
Racconterò qui di seguito, brevemente, un altro emblematico caso, è la storia di Manlio Mattè, un avvocato torinese, volontario nel primo confitto mondiale durante il quale venne decorato al valore. Fu in seguito Fascista e dopo l’8 settembre aderì alla Repubblica Sociale, come giurista fece parte del Tribunale Speciale di Torino, dove svolse il suo delicato compito con alto senso di responsabile umanità. Un uomo retto e giusto che fuggì l’odio anche quando i partigiani uccisero a tradimento il figlio Umberto, combattente nella Divisione Monterosa.
Nella primavera del 1945, all’approssimarsi della “liberazione” quando i partigiani si preparavano a festeggiare la vittoria con un bagno di sangue, il giudice venne catturato, sottoposto a un processo farsa e condannato a morte. Condanna che fu eseguita dopo un periodo di carcerazione e torture che l’uomo sopportò con grande dignità. Queste le ultime righe che inviò alla famiglia:
“Carissima Emma, carissimi figli, vi mando i miei saluti ed un abbraccio. Nella mia vita non ho deflettuto mai dall’amor di Patria. Nelle mie ultime funzioni non ho piegato a nessun ordine ed ho salvato e beneficato. Non una goccia di sangue sulla mia coscienza. Siate orgogliosi di questo… Manlio”
In parallelo alla scelta così drammatica di questo Giudice che prestò fede alla Patria fino in fondo, vorrei ricordare l’esempio di Oscar Luigi Scalfaro, nono presidente della nostra Repubblica, resosi famoso con il suo “Non ci sto!” teso a ribadire la rettitudine e la coerenza di cui da sempre si è sentito animato.
Nel 1941 si era laureato in Giurisprudenza, chiamato alle armi fu sottotenente per un solo anno poichè nel 1942, vinto un concorso, divenne Magistrato, prestando Giuramento di fedeltà al Fascismo, compito che svolse con coerenza fino al 1945, cioè anche durante la Repubblica Sociale.
Poi arrivò la “conversione”, il 1° maggio del 1945, a liberazione appena avvenuta, assunse la carica di vice presidente del ”Tribunale del popolo” di Novara, una carica del tutto politica attribuita dal CLN locale. Nel successivo mese di giugno i tribunali del popolo furono sostituiti con le CAS “Corti di Assise Straordinarie”, composte da giudici volontari, atte a terminare l’opera di “antifascistizzazione” dell’Italia e Scalfaro chiese il passaggio a Pubblico Ministero presso la CAS di Novara.
Animato da grande fede religiosa e da coscienza cristiana come ha sempre dichiarato, non si pose però nessun problema a far condannare fascisti innocenti. (Otto le condanne a morte che chiese e ottenne durante il suo incarico.)
I primi sei imputati per “collaborazione con il tedesco invasore” furono l’ex prefetto di Novara Enrico Vezzalini e i fascisti Arturo Missiato, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno, Raffaele Infante e Domenico Ricci. Il processo durò tre giorni e Scalfaro chiese ed ottenne la condanna a morte che fu eseguita il 23 settembre.
Vezzalini era stato ancora prima di essere Prefetto, un valoroso soldato pluridecorato, un fascista scrupoloso e leale, rispettoso della parola data fino all’estremo sacrificio e finanche il fazioso giornale “La Voce del Popolo” di Novara, durante i giorni del processo, quasi con ammirazione scrisse di lui: “…Ha un ingegno superiore alla media(…)Non è un cieco sanguinario, non un manigoldo, non un losco…”
Tra i sei condannati è emblematica la storia di Domenico Ricci, un brigadiere di Pubblica Sicurezza che, al momento della condanna a morte aveva 48 anni e lasciò la moglie e quattro figli.
Scalfaro conosceva molto bene la sua famiglia, abitavano nella stessa palazzina in corso Torino a Novara, uno sotto e uno al piano di sopra. Anna Maria, una dei figli di Ricci dichiarò che aveva visto sempre Scalfaro “come un padre, forse di più…”
Ciononostante, il magistrato tutto d’un pezzo, non si fece scrupoli nell’accusare senza pietà e chiedere il massimo della pena per il suo vicino. Era talmente coerente, che anche in seguito mantenne rapporti fraterni con la famiglia, mandò ad Anna Maria per la Prima Comunione del figlio un orologio in regalo accompagnato da un biglietto:
“Il nonno dal Paradiso sarà il più presente all’incontro di Douglas con Gesù. Stia sempre serena.”
La sua profonda bontà cristiana e la sua illuminante fede gli impedivano di vedere quanto fosse ipocrita la pretesa di accreditare al Paradiso un uomo così malvagio che egli stesso aveva fatto condannare a morte.
Nel 1996 il Giornale pubblicò una fotografia dell’esecuzione di Domenico Ricci e la figlia Anna Maria ravvisò fra i presenti l’allora futuro presidente, nonché amico di famiglia, Oscar Luigi Scalfaro. Fu allora che decise di scrivergli una lettera pregandolo di aprirle il suo cuore, voleva sapere se suo padre fosse stato colpevole o innocente e lui, evasivamente, le rispose ancora una volta di stare serena che il padre dal Paradiso avrebbe pregato per lei.
Nel 2006 alle incalzanti domande del giornalista Pierangelo Maurizio della trasmissione Kosmos (rete 4), Oscar Luigi Scalfaro ammise “di non avere elementi per rispondere” alla figlia di Domenico Ricci e disse:
“Era colpevole?… Non so”
E aggiunse un macabro dettaglio raccontando che, presente al fatto, dopo l’esecuzione vide un gruppo di donne scagliarsi spietatamente sui cadaveri e farne scempio. Il corpo straziato del brigadiere Ricci non fu mai consegnato alla famiglia e nessuno ne conosce il luogo di sepoltura.
Il giornalista di Kosmos, recuperò anche la sentenza emessa dal tribunale ai danni di Ricci, mentre gli atti processuali erano scomparsi, e vi si potè leggere:
“insieme al Missiato costituì l’anima della Squadraccia, della quale, poi, pare abbia assunto il comando ufficiale allo scioglimento di essa.”
“La domanda che sorge spontanea” si chiese il giornalista al termine delle sue ricerche “è se si può condannare un uomo a morte sulla base di un pare abbia assunto il comando di una squadra oramai sciolta.”
L’intransigente futuro presidente e cattolicissimo inquisitore, era talmente convinto della sua opera di “pulizia” che continuò a mandare fascisti in paradiso. Il 16 luglio del 1945 chiese ed ottenne la morte di Giovanni Pompa, anni 42, già appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana, sentenza che fu eseguita il 21 ottobre 1945. E otto mesi dalla fine del conflitto, il 21 dicembre fece condannare a morte Salvatore Zurlo, condanna chiesta con forza, ma che fu poi revocata, unica dopo sette di cui si è certamente venuti a conoscenza.
Scalfaro aveva saputo accreditarsi agli occhi della nuova classe dirigente e di lì a poco ottenne di divenire uno dei padri costituenti e iniziare così la sua brillante carriera che lo condusse al Parlamento e poi al Colle.
Due storie, due giudici che al bivio scelsero strade diverse e mentre Manlio Mattè fu ucciso dai partigiani, Oscar Luigi Scalfaro divenne presidente della Repubblica, ma si sa… chi muore non fa carriera.
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