100 anni fa in Italia avvenne l’unica Rivoluzione che la storia del nostro Paese possa annoverare. La realizzarono insieme i Futuristi, gli Arditi che avevano combattuto con audacia, i Fanti delle trincee, buona parte dei legionari fiumani di D’Annunzio, i primi socialisti interventisti, i sindacalisti nazionali, gli anarchici dei fasci d’azione rivoluzionaria, alcuni repubblicani, molti socialisti riformisti, borghesi e operai, intellettuali e contadini, signori e popolani, poeti e artisti, c’era tutta l’Italia migliore di quell’epoca unica e irripetibile. C’erano i giovanissimi che dalle trincee e dalle università sciolsero al vento le bandiere di un fascismo irruente e scanzonato, antidogmatico e innovatore. C’era tutta la “meglio gioventù” che volle realmente dare “l’assalto al cielo” per creare uno Stato nuovo e non le frattaglie libertarie, comunistoidi e terzomondiste che dopo il ’68 – quando non precipitarono nell’abisso del terrorismo – la cosa migliore che seppero fare fu sballarsi di spinelli o andare a tagliare la canna da zucchero a Cuba.
In quell’Idea si riconobbero il padre del Futurismo italiano Filippo Tommaso Marinetti e il Vate Gabriele D’Annunzio che ispirò l’istinto anti-borghese del primo fascismo, affiancati nel prosieguo della storia a personalità come quella di Italo Balbo, Ettore Muti, Giuseppe Bottai, Berto Ricci, Niccolò Giani, Alessandro Pavolini e Giuseppe Solaro a cui si aggiunsero, nel tempo, accademici come Giovanni Gentile, sommi scrittori come Luigi Pirandello, giuristi come Alfredo Rocco e Carlo Costamagna, i giovani architetti dell’Eur, poeti, filosofi e gli artisti “totali” come Duilio Cambellotti, solo per citarne alcuni, che costituirono un corpus antropologico così ricco e variegato che completò mirabilmente la gigantesca operazione riformista del regime che ha costruito, di fatto, l’impianto sociale dello Stato italiano. Questa imponente eredità del fascismo è rimasta impermeabile alla retorica antifascista che ha cercato inutilmente di sminuirla e di stravolgerne la memoria. Perciò, è stato necessario demonizzare il fascismo, negarne meriti e conquiste sociali, trasformarlo nello spettro “vivente” del dibattito pubblico, sventolarne strumentalmente il fantasma, per coprire le inadempienze e la mediocrità delle classi dirigenti democratiche. In assenza di fascismo, per decenni in Italia si è data la caccia alle streghe e si è legiferato ossessivamente contro un fascismo immaginario, ampliando le disposizioni transitorie della Costituzione, introducendo i reati di opinione (legge Mancino) e proponendo una stretta di fatto alle libertà di ricerca storica e di espressione.
Eppure, ricordando questo centenario, in tutte le città d’Italia, da più parti, in ogni dove, con diversi raggruppamenti, con singole manifestazioni di fede, migliaia di italiani di ogni età hanno festeggiato, celebrato, rivendicato e lasciato il segno, in ogni modo, di una fede e di una presenza ideale irremovibile. E se questo spirito è ancora vivo, dopo una guerra perduta e decenni di propaganda infamante, è evidente che quell’Idea aveva qualcosa di magico che ha catturato per sempre l’animo del Paese. Perciò, quelli che mal sopportano questa evidenza sono impazziti di rabbia e hanno protestato e vomitato tutto il loro livore, incapaci come sono di chiedersi dove hanno fallito se, dopo quasi 75 anni di potere assoluto antifascista, con il controllo totalitario di ogni aspetto della vita nazionale, devono prendere atto che l’Italia vagheggia altro da loro e vuole un domani nuovo e diverso, lontano dalle loro ipoteche, dai loro intrallazzi e dalle loro infamie.
Un domani che non ripercorra sentieri impossibili e irripetibili, ma che sia affrancato dai diktat delle élite finanziarie, delle agenzie di rating, della Commissione Europea, dal pareggio di bilancio, dalla BCE e da tutti quei vincoli che antepongono gli interessi economici alla sostenibilità della vita, al benessere dei popoli e all’aiuto dei più deboli. Un domani che privilegi la socialità rispetto alle aride leggi dell’economia e non sia ostaggio della globalizzazione, della concorrenza sfrenata, del turbocapitalismo e del liberismo. Insomma, un domani depurato dalla schiavitù dell’usura e del profitto senza limiti e dalle ossessioni antifasciste che erano estranee persino ai tanto osannati padri costituenti.
Se si leggono i verbali dell’assemblea costituente, datati 3 Ottobre 1946, si può notare come costoro all’epoca avessero un approccio culturale e politico di ben diverso spessore rispetto a quello dei loro grotteschi attuali eredi. Alcuni interventi di rilievo forniscono addirittura una interpretazione meno settaria del fascismo, visto non come il male assoluto, ma considerato come reazione al liberismo giudicato il vero pericolo per le sorti dell’umanità. Il liberismo venne addirittura indicato come la causa principale della seconda guerra mondiale. Palmiro Togliatti ebbe a dire: “Tutti capiscono la realtà della vita economica di oggi; tutti hanno visto come si sia sviluppata la vita economica nell’Europa capitalista, dove si è assistito a forme di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, e come ne siano derivati sconvolgimenti sociali, la miseria, la guerra, il fascismo, la tirannide, che ha soppresso la libertà democratica. È a questo che si cerca di porre riparo.”; Aldo Moro affermò: “è effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell’ordinamento più completo dell’economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere possibile”; Gustavo Ghidini (7 Maggio 1947) fu categorico: “Se si lascia libero sfogo alla legge della libera concorrenza e alla libera iniziativa animata solo dal fine del profitto personale, si arriva pur sempre al supercapitalismo (…) fra le quali primeggia la guerra tremenda che fu la rovina di tanti popoli.”
Sarebbe stato più saggio se la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione “più bella del mondo” si fosse occupata del liberismo e della “demonìa dell’economia”, veri mali assoluti di ogni società democratico borghese, piuttosto che della ricostituzione del PNF, per mettere la Repubblica al riparo dai reali pericoli che incombono sulla Nazione. Forse andrebbe proprio riscritta quella Costituzione che fu pensata da chi non immaginava potesse essere piegata per consentire a un manipolo di fanatici di conseguire i propri loschi interessi economici e politici, per creare un nuovo elettorato e un esercito di riserva dal quale attingere all’infinito, per sostituire e imbastardire il popolo italiano.
Anzi, se si spinge lo sguardo all’indietro, ai patrioti del nostro Risorgimento, ci si accorge che oggi anche loro verrebbero definiti come “razzisti” dai volgari esponenti del pensiero unico e dai sacerdoti laici del politicamente corretto. Per Mazzini, valeva una concezione della Nazione imperniata su di “una appartenenza ascrittiva (cioè oggettiva, che prescinde dalla scelta del singolo individuo); l’essenza biologica che connota l’appartenenza ad una stessa comunità (la medesima fisionomia); i caratteri culturali (la lingua) e naturali (il suolo) che le sono propri”. Con termini moderni: sangue, lingua e terra forgiano una identità nazionale. Non il casuale luogo dove si nasce.
Il luogo dove nasci ti plasma, nei millenni. Non sei medico solo perché nasci in ospedale. Da Manzoni (“una [l’Italia] d’arme, di lingua, d’altare /Di memorie, di sangue e di cor”), a Gioberti (“v’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre”) fino a Francesco De Sanctis (“saremo una nazione di ventisei milioni di uomini, una di lingua, di religione, di memorie, di coltura, d’ingegno e di tipo”) e Cavour (“una [l’Italia] la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intiero riscatto”), terra, sangue e cultura sono elementi inscindibili. L’idea che li sottende non è negoziabile. Non è mutabile per legge. Non si può essere italiano di origini nigeriane o tunisine.
Si può avere una carta di identità o un passaporto, ma non si può rivendicare una stirpe. Quando si discussero in Parlamento le norme sulla cittadinanza, un altro patriota, Stanislao Mancini disse: “l’uomo nasce membro di una famiglia, e la nazione essendo un aggregato di famiglie, egli è cittadino di quella nazione a cui appartengono il padre suo, la sua famiglia. Il luogo dove si nasce, quello dove si ha domicilio o dimora, non hanno valore né significato. E sia lode al novello Codice, il quale ha reso omaggio a questo grande principio pronunciando essere italiano chi nasce, in qualunque luogo, da padre italiano, cioè di famiglia italiana”. Ecco che lo ius soli è la morte della Patria, la negazione della nostra Identità e un insulto alla memoria di chi ha lottato per la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Perché ‘chi sei’ non dipende da una tua scelta. E’ una realtà oggettiva.
Esattamente come l’essere maschio o femmina. Anche questo un concetto posto sotto l’attacco dell’entropia moderna. Perché vogliono l’uomo senza identità. Il suddito perfetto e androgino. Meglio ancora se ibridato e meticcio, puntando sulla strada della sostituzione etnica, speculando sul calo della natalità, ma opponendosi a ogni prevenzione dell’aborto, non additato come un dramma ma celebrato come una conquista sociale, senza offrire alle donne e alle famiglie un aiuto né alcuna alternativa di vita e di speranza. Ecco perché l’abrogato Titolo X del Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) recitava a proposito dell’aborto, procurato o volontario, come “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”, perché considerava i nati italiani come un bene prezioso della Nazione e non una semplice cellula, ovvero un elemento talmente insignificante da consentire che su di esso si potesse esercitare l’insindacabile e assoluto potere di vita o di morte della donna.
Ma l’antifascismo è stato anche questo, cioè la giustificazione della perversione dei canoni odierni, la sovversione della natura, l’affermazione del relativismo e la creazione arbitraria di diritti innaturali. Per questo milioni di italiani, per ragioni di semplice buon senso e non ideologiche, cominciano a riscoprire la validità eterna di certe leggi naturali, negate e vilipese, e a scegliere diversamente da come vorrebbero gli epigoni del progressismo e del mondialismo inumano. E quanti di noi sono rimasti fedeli a una Idea, ne riaffermano convintamente la rinnovata validità e attualità di certe tematiche. Insomma, ha cento anni ma non li dimostra.
Enrico Marino
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